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Cassazione Penale, Sez. 4, 18 gennaio 2017, n. 2406

L’interpretazione sistematica offerta dalla giurisprudenza di legittimità, ha determinato una significativa evoluzione del ruolo assunto dal Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione nel senso di una maggior responsabilizzazione di tale figura professionale, la quale, benché sia chiamata a svolgere funzioni di natura puramente consultiva e propulsiva, ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella stesura del relativo documento nonché per il coordinamento del servizio di prevenzione e protezione. Conseguentemente per il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è ipotizzabile una responsabilità penale qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo.
La “designazione” del RSPP, che il datore di lavoro era tenuto a fare a norma del D.lgs. n.626 del 1994, art.8, individuandolo ai sensi dell’art. 8 bis del citato decreto tra le persone i cui requisiti siano adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative (v. ora D.lgs. 81 del 2008 artt. 31 e 32), non equivale a “delega di funzioni” utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri – il delegato – la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori.
Quanto detto però non esclude che, indiscussa la responsabilità del datore di lavoro, possa profilarsi lo spazio per una (concorrente) responsabilità del RSPP.
In vero, all’imputato, quale professionista esperto, prima consulente e poi RSPP dell’azienda A. non poteva sfuggire la valutazione del “dove” e “come” venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti i detti materiali liquidi altamente infiammabili; né esorbitava dai suoi obblighi la ponderazione della collocazione e dell’utilizzo delle cisterne presenti nel piazzale dell’azienda (di dimensioni tali da non poter essere “non notate”). Eppure di tutto ciò non v’è traccia nei documenti di valutazione dei rischi …
“Egli non poteva ignorare, e se lo ha fatto ciò è ascrivibile a colpa, l’esistenza del deposito esterno formato da cisterne di materiale infiammabile.”


> articolo collegato:
– Valutazione dei rischi: c’è spazio per l’iniziativa personale del RSPP? (26.06.2017)

Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 15/12/2016

Fatto

1. Con la sentenza n. 162 del 05/02/2014, la Corte di Appello di Trieste confermava (pur concedendo il beneficio della non menzione) la sentenza del 23 aprile 2012 con la quale il GUP del Tribunale di Udine, in esito al giudizio abbreviato, riconosceva la penale responsabilità di E.R., B.E. e B.W. in ordine al reato di omicidio colposo aggravato in danno di C.D., evento occorso a seguito di un infortunio sul lavoro accaduto in Moimacco presso lo stabilimento della S.p.A. A. il 24/10/08, e, concesse a tutti le attenuanti generiche ed applicata la diminuente per il rito, li condannava ciascuno alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, la figlia della deceduta, da liquidarsi in separato giudizio.
1.1. L’evento mortale è stato addebitato a E.R. quale presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della S.p.A. A., alle cui dipendenze lavorava la vittima, a B.W. in qualità di direttore tecnico e responsabile della produzione e a B.E. quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione. In particolare, quanto alla posizione di B.E., si evidenziava come, in virtù della carica ricoperta, egli non rivestisse una posizione di garanzia distinta ed autonoma rispetto a quella del datore di lavoro relativamente all’osservanza della normativa antinfortunistica ma, ciò nondimeno, egli avesse l’obbligo di valutare con diligenza e prudenza i processi produttivi, individuando i possibili fattori di rischio e segnalandoli al datore di lavoro per l’adozione degli opportuni provvedimenti. Nel caso di specie, egli avrebbe omesso di segnalare al datore di lavoro il grave rischio connesso all’esistenza dei depositi di materiale infiammabile ed alle procedure di travaso, così mostrando grave negligenza nell’assolvimento degli obblighi giuridici che gli competevano.
2. Avverso tale sentenza d’appello propone ricorso per cassazione B.E., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all’art.173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.):
I) vizi motivazionali. Deduce che è pacifico che il responsabile del servizio (RSPP) non rivesta alcuna posizione di garanzia e che possa, ancorché privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, ma tale obbligo di conoscere, è obbligo giuridico, e va ricavato dagli obblighi informativi del datore di lavoro nei confronti del responsabile, finalizzati a porre quest’ultimo in condizione di adempiere ai suoi compiti. Ciò posto, sostiene che dagli atti non emerge che la mansione da cui è derivato l’incidente mortale, fosse stata portata a conoscenza del B.E., né questi era stato messo a conoscenza del fatto che quei fusti avessero la destinazione di deposito di materiale infiammabile non risultando dalla documentazione in suo possesso l’esistenza del deposito esterno di solventi. Afferma, ancora, che la sentenza impugnata nel proprio corpo motivazionale non indica alcun elemento probatorio positivo a fondamento della decisione. Essa, secondo il ricorrente, si limita ad affermare l’obbligo di svolgere sopralluoghi in capo al B.E., e da ciò deducendo che il B.E. non poteva non conoscere l’attività lavorativa oggetto di imputazione. Né si sofferma a spiegare il contenuto normativo e/o negoziale di tali sopralluoghi, con riferimento all’ambito di effettuazione degli stessi ed ai poteri ad essi collegati, né risponde, indicando una fonte di prova normativa, o negoziale, o fattuale, alle obiezioni della difesa circa il fatto che il B.E. doveva sì svolgere i controlli, ma negli ambiti di produzione così come indicati dal datore di lavoro. Neppure risponde la sentenza alla contestazione secondo cui non vi è traccia nel processo di alcuna fonte che comprovi l’effettiva conoscenza in capo all’imputato dell’attività lavorativa oggetto di imputazione. Conclude che il vizio denunciato, va a ledere il principio del ragionevole dubbio, regola di giudizio che pretende percorsi epistemológicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazioni razionali della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale.

Diritto

3. Il ricorso è infondato.

4. Il ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito. In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr. sez. 2, n. 38393 del 20/07/2016; sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
5. Ciò detto, occorre, per completezza, ribadire che la definizione fornita dal D.lgs. n. 81 del 2008, art. 2, lett. f), individua e definisce il “Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP)” come persona fisica in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’art. 32, designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il “servizio di prevenzione e protezione dai rischi” che, come noto, è integrato dall’insieme delle persone, dei sistemi e dei mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori.
5.1. L’interpretazione sistematica offerta dalla giurisprudenza di legittimità, ha determinato una significativa evoluzione del ruolo assunto dal Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione nel senso di una maggior responsabilizzazione di tale figura professionale, la quale, benché sia chiamata a svolgere funzioni di natura puramente consultiva e propulsiva, ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nella stesura del relativo documento nonché per il coordinamento del servizio di prevenzione e protezione. Conseguentemente per il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è ipotizzabile una responsabilità penale qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo.
5.2. Alla stregua del recente arresto giurisprudenziale di questa stessa sezione (v. sez. 4, n. 11492 del 24/01/2013) va confermato il principio di diritto secondo cui: “il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica, lo stesso opera, piuttosto, quale “consulente” in tale materia del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio. In effetti, la “designazione” del RSPP, che il datore di lavoro era tenuto a fare a norma del D.lgs. n.626 del 1994, art.8, individuandolo ai sensi dell’art. 8 bis del citato decreto tra le persone i cui requisiti siano adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative (v. ora D.lgs. 81 del 2008 artt. 31 e 32), non equivale a “delega di funzioni” utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri – il delegato – la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori. Posizione di garanzia che, come è noto, compete al datore dì lavoro in quanto ex lege onerato dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa. Quanto detto però non esclude che, indiscussa la responsabilità del datore di lavoro, che rimane persistentemente responsabile della posizione di garanzia, possa profilarsi lo spazio per una (concorrente) responsabilità del RSPP. Anche il RSPP, che pure è privo di poteri decisionali e di spesa e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto (cor)responsa-bile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione”.
5.3. Nel caso che occupa la mancata previsione del rischio e dei mezzi per contenerlo è stata individuata, dai giudici del merito, come causa incidente sulla mancata adozione di adeguati presidi oggettivi, di adeguata informazione e in definitiva come causa efficiente nella determinazione dell’evento reato.
5.3.1. In vero, al B.E., quale professionista esperto, prima consulente e poi RSPP dell’azienda A. (specializzata nella produzione di antine in legno per arredamenti, dotata di un reparto di tinteggiatura ove normalmente vengono utilizzati smalti, vernici e diluenti), non poteva sfuggire la valutazione del “dove” e “come” venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti i detti materiali liquidi altamente infiammabili; né esorbitava dai suoi obblighi la ponderazione della collocazione e dell’utilizzo delle cisterne presenti nel piazzale dell’azienda (di dimensioni tali da non poter essere “non notate”). Eppure di tutto ciò non v’è traccia nei documenti di valutazione dei rischi redatti dal ricorrente: «le cisterne non avevano un dispositivo di messa a terra, così pure i bottini, che anzi erano trasportati a bordo di carrellini gommati e quindi isolati; non era previsto che gli addetti all’operazione di travaso indossassero indumenti che impedissero l’accumulo di cariche elettrostatiche (la C.D. indossava scarpe con suola di gomma ed era quindi isolata da terra)» (v. pag. 2 della sentenza impugnata).
5.3.2. Ineccepibile, appare, quindi, sul punto, la motivazione della Corte territoriale che, fatte proprie le conclusioni del primo giudice, ha ritenuto «Nel caso in esame, oltretutto, l’oggetto della mancata valutazione non era certamente marginale o poco evidente, trattandosi di un deposito di alcune grandi cisterne poste in un’apposita area al di fuori dello stabilimento, la cui esistenza non poteva essere ignorata da alcuno… Nel presente procedimento il B.E. assume la doppia veste di consulente esterno del datore di lavoro nell’elaborazione del documento di valutazione e di R5PP successivamente nominato. Egli non poteva ignorare, e se lo ha fatto ciò è ascrivibile a colpa, l’esistenza del deposito esterno formato da cisterne di materiale infiammabile. Come ha correttamente rilevato il perito nella propria relazione, gli accordi fra lo studio professionale del B.E. e la A. prevedevano sopralluoghi periodici in azienda al fine di verificare i rischi presenti. L’appellante non può quindi giustificare la (asserita) mancata conoscenza del deposito con la constatazione che esso non fosse indicato nelle planimetrie».
6. Conclusivamente, una volta accertata la legittimità e la coerenza logica della sentenza impugnata, deve ritenersi che il ricorso, nel rappresentare l’inaffidabilità degli elementi posti a base della decisione di merito, pone solo questioni che esorbitano dal limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dai giudicanti e nell’offerta di una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio. Questioni, queste, che sfuggono al sindacato di legittimità (cfr. sez. 6, n. 13170 del 06/03/2012).
7. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 15/12/2016

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