Cassazione Penale, Sez. 4, 19 ottobre 2017, n. 48285

Nelle società di capitali gli obblighi sulla prevenzione infortuni gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione.


Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 26/09/2017

Fatto

1. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo, appellata dall’imputata P.A., con la quale la stessa è stata condannata per il reato di cui all’art. 590 co. 1, 2 e 3 cod.pen., in relazione all’art. 71 co. 3 all. VI, punto 3.1.6 del d.lgs 81/2008.
Si è contestato all’imputata – nella qualità di legale rappresentante, datore di lavoro e responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una ditta di trasporti – di avere cagionato al lavoratore dipendente M.S. le lesioni descritte in rubrica per colpa generica e specifica (consistita nella violazione della norma suindicata), consentendo che il predetto, a bordo di una motrice dotata di gru e nel corso dello svolgimento di operazioni di scarico di tubazioni in acciaio, svolgesse l’attività lavorativa senza adottare adeguate misure tecniche ed organizzative, per inidoneità degli accessori di sollevamento in dotazione in funzione del carico da movimentare e delle altre condizioni in cui l’attività lavorativa si è svolta.
2. Questa, in sintesi, la vicenda come ricostruita nella sentenza impugnata.
Il 05/05/2009 la Spedizioni Trasporti P.E. S.p.A. aveva ricevuto in Ghisalba, nel piazzale della committente Uniacque S.p.A., un carico di tubi per condotte di acqua potabile, trasportati da un autoarticolato di altra ditta, condotto da B.A., dipendente della impresa “A la Petite Fleur”. Il carico era distribuito su 8 file sovrapposte di 12 tubi ciascuna; ogni fila era distanziata dalla superiore mediante traversi in legno, in corrispondenza dei quali erano inseriti dei cunei di trattenuta laterale delle condotte. Tuttavia, sei tubazioni, di lunghezza maggiore rispetto alle altre, erano state semplicemente appoggiate sui tubi sottostanti, senza la collocazione di spessori. Il M.S., per procedere allo scarico, aiutato dal B.A., aveva cinto con una fascia di sollevamento i sei tubi posti sulla sommità, sollevandoli leggermente, movimento che, tuttavia, aveva prodotto la riunione delle tubazioni e lo spostamento laterale di almeno una di esse che, in assenza di elementi di contenimento, cadeva a terra investendo il M.S..
3. L’imputata P.A. ha proposto ricorso a mezzo di difensore, formulando cinque motivi.
3.1. Con il primo, ha censurato la mancata assunzione di una prova a discarico decisiva, richiesta nel corso dell’istruzione dibattimentale di primo grado, con riferimento alla ammissione del teste G., consulente tecnico della difesa sul punto concernente le procedure utilizzate in materia di sicurezza sul lavoro e sulla conformità alla normativa vigente, rilevando che la risposta del Tribunale era stata del tutto apodittica e che la Corte d’appello, pur dandone atto, l’aveva condivisa, ritenendo detta audizione superflua, sull’assunto che la stessa difesa non avrebbe adeguatamente contestato la ricostruzione, assolutamente chiara, dell’operazione eseguita dall’infortunato.
In particolare, la parte ricorrente evidenzia che l’eccezionalità dell’istituto di cui all’art. 603 cod.proc.pen. non può tradursi nello svuotamento della sua portata applicativa, a fronte della permanente incertezza sulla dinamica dell’infortunio.
3.2. Con il secondo, ha dedotto vizio della motivazione in ordine alla posizione di garanzia rivestita dall’imputata, avendo la Corte d’appello confuso il ruolo di “responsabile tecnico”, figura avulsa dalla materia infortunistica, con quella del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Il Tribunale, secondo la prospettazione difensiva, non avrebbe ravvisato una posizione di garanzia in capo alla imputata alla luce dei principi del giudice di legittimità che la riconosce nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione, ma inferito la sua sussistenza in base ad un non meglio specificato ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nulla affermando la Corte d’appello al riguardo.
Sotto altro profilo, ha rilevato che tale ruolo era stato riconosciuto in difetto di un atto di investitura formale (la P.A. essendo al momento dell’infortunio destinatario di deleghe tecniche in settori avulsi dal sistema di prevenzione infortuni) e che, in ogni caso, non era stato dimostrato che la stessa, nella qualità, avesse omesso colposamente di segnalare una situazione critica nota, impedendo al datore di lavoro di attivarsi per assumere le necessarie precauzioni.
3.3. Con il terzo motivo, la parte ha dedotto vizio della motivazione con riferimento alla affermazione della penale responsabilità dell’imputata, le conclusioni cui è giunto il giudice d’appello essendo smentite dalle risultanze istruttorie, oggetto di vera e propria distorsione processuale, atteso che la condotta del B.A. (il quale salì in cima alle tubazioni) era del tutto imprevedibile ed autonoma rispetto alla procedura standardizzata che non contemplava tale evenienza, con conseguente incertezza sul nesso causale.
3.4. Con il quarto, ha dedotto travisamento della prova, con riferimento al documento di valutazione dei rischi che, secondo la Corte d’appello, non avrebbe contenuto indicazioni e prescrizioni sulle specifiche operazioni di scarico, laddove il documento invece prenderebbe proprio in considerazione la mansione di autista, rimandando al Manuale pratico di formazione generica e specifica per gli autotrasportatori, nel quale sono dettagliatamente indicate le varie tipologie di rischio e, tra queste, quello derivante da colpi e impatti, come verificatosi nel caso di specie.
Sotto altro profilo, la parte ha evidenziato che la Corte d’appello non avrebbe considerato il fascicolo informativo relativo alle procedure di carico e scarico dei camion in cui si fa espresso divieto al contemporaneo impiego di uomini e macchine operatrici nella fase di aggancio e sollevamento merci.
3.5. Infine, con il quinto motivo, la parte ha dedotto vizio della motivazione in relazione al diniego del beneficio di cui all’art. 175 cod. pen., con riferimento al pregiudizio che la presenza della condanna potrebbe determinare sia alla Società in sede di partecipazione a gare d’appalto, sia alla stessa P.A., con riferimento a future occasioni lavorative.

Diritto

1. Il ricorso è inammissibile.
2. La Corte territoriale ha rigettato l’istanza di riapertura dell’istruzione dibattimentale finalizzata all’ammissione dell’esame del consulente di parte che, secondo la difesa, avrebbe potuto apportare importanti contributi in ordine al profilo dell’adeguatezza delle procedure in materia di sicurezza sul lavoro, rilevando, da un lato, l’eccezionalità dell’istituto di cui all’art. 603 cod.proc.pen., dall’altro, l’esistenza di documentazione versata in atti dalla stessa difesa e richiamata dall’ufficiale di P.G. della ASL, intervenuto nell’immediato sui luoghi, dalla quale era emerso che il documento di valutazione dei rischi non dava indicazioni o suggerimenti, né prescrizioni adeguate circa le specifiche operazioni di scarico, dettando regole di comportamento per gli operatori a terra del tutto generiche e prendendo in considerazione il rischio da esposizione a vibrazioni meccaniche, in relazione al trasporto su strada, ma non anche quello specifico della movimentazione di tubi di siffatte dimensioni, collocati nella maniera sopra descritta.
Dalle testimonianze incrociate dell’Infortunato e del B.A., poi, la Corte d’appello ha tratto la conclusione che quella seguita nell’occorso fosse la procedura standardizzata, dovendo il B.A. porsi in cima alle tubazioni per inserire la fascia di imbracatura, nella consapevolezza che le tubazioni non erano in alcun modo fissate. Queste erano, pertanto, le attrezzature fornite al dipendente infortunato, mentre la condotta del B.A. era ordinaria ed assolutamente prevedibile.
Inoltre, la dinamica dell’incidente era stata ricostruita in termini di certezza e con riferimento ad essa la difesa non aveva opposto serie contestazioni, non avendo potuto negare accadimenti riferiti da più persone e nell’immediatezza documentate mediante rilievi fotografici.
L’infortunato, peraltro, era stato valutato idoneo come autista (come comprovato da documentazione prodotta a difesa) e non erano emerse specifiche attività di formazione e informazione concernenti operazioni del tipo di quella compiuta in occasione dell’infortunio.
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
È stato definitivamente chiarito, anche di recente, che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti [cfr. Sez. U. n. 12602 del 17/12/2015 Ud. 8dep. 25/03/2016), Ricci, Rv. 266820].
Quanto al controllo sull’esercizio di tale discrezionalità, si è pure chiarito, anche da parte di questa sezione, che il sindacato che il giudice di legittimità può esercitare in relazione alla correttezza della motivazione di un provvedimento pronunciato dal giudice d’appello sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento, non può mai essere svolto sulla concreta rilevanza dell’atto o della testimonianza da acquisire, ma deve esaurirsi nell’ambito del contenuto esplicativo del provvedimento adottato [cfr. sez. 3 n. 7680 del 13/01/2017, Rv. 269373; sez. 4 n. 37624 del 19/09/2007, Rv. 237689; indirizzo che si pone in linea di continuità con quanto già affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 2110 del 23/11/1995 ud. (dep. 23/02/1996), P.G. in proc. Fachini, Fachini e altri, Rv. 203764],
Nel caso di specie, il contenuto esplicativo del provvedimento adottato è del tutto congruo, logico e non contraddittorio, oltre che coerente al dettato normativo e alla ratio dell’istituto invocato, avendo la Corte territoriale ritenuto la non decisività dell’audizione del consulente di parte poiché il suo apporto esplicativo non avrebbe potuto superare le risultanze probatorie acquisite e, in particolare, la prova documentale riversata in atti dalla stessa difesa dell’imputata.
4. Tale ultimo argomento consente di introdurre l’esame del terzo e del quarto motivo di ricorso, entrambi riguardanti la valutazione del compendio probatorio, sia sotto il profilo della mancanza o contraddittorietà della motivazione, che avuto riguardo al dedotto travisamento della prova documentale (in particolare: documento valutazione dei rischi; manuale pratico di formazione generica e specifica per gli autotrasportatori; fascicolo informativo).
4.1. L’agevole raffronto tra le motivazioni della sentenza impugnata, sopra riportate in sintesi, e il contenuto delle doglianze articolate in questa sede ne rivela la manifesta infondatezza: la parte ricorrente ha continuato a contestare la ricostruzione dei fatti, opponendo a quella recepita dai giudici del merito – attraverso un percorso argomentativo non contraddittorio, logico, coerente con i dati probatori esposti nella sentenza e previo confronto con tutte le doglianze difensive – la propria ipotesi, sostenendo il ricorso attraverso un preteso travisamento probatorio.
4.2. Tuttavia, deve intanto ribadirsi, in linea generale che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482; sez. 1 n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507).
Pertanto, è inammissibile il motivo di ricorso che sottopone al giudice di legittimità atti processuali per verificare l’adeguatezza dell’apprezzamento probatorio ad essi relativo compiuto dal giudice di merito ed ottenerne una diversa valutazione, perché lo stesso costituisce censura non riconducibile alle tipologie di vizi della motivazione tassativamente indicate dalla legge” (cfr. Sez. 7 n. 12406 del 19/02/2015, Rv. 262948). Ed infatti, il ricorso per cassazione è ammesso per vizi della motivazione riconducibili solo, e tassativamente, alla motivazione totalmente mancante o apparente, manifestamente illogica o contraddittoria intrinsecamente o rispetto ad atti processuali specificamente indicati, nei casi in cui il giudice abbia affermato esistente una prova in realtà mancante o, specularmente, ignorato una prova esistente, nell’uno e nell’altro caso quando tali prove siano in sé determinanti per condurre a decisione diversa da quella adottata. Il giudice di legittimità non può tuttavia conoscere del contenuto degli atti processuali per verificarne l’adeguatezza dell’apprezzamento probatorio, perché ciò, dopo due gradi di merito, è estraneo alla sua cognizione: sono pertanto irrilevanti, perché non possono essere oggetto di alcuna valutazione, tutte le deduzioni che introducano direttamente nel ricorso parti di contenuto probatorio, tanto più se articolate, in concreto ponendo direttamente la Corte di cassazione in contatto con i temi probatori e il materiale loro pertinente al fine di ottenerne un apprezzamento diverso da quello dei giudici del merito e conforme a quello invece prospettato dalla parte ricorrente (cfr. in motivazione Sez. 7, n. 12406/15 citata).
4.3. Con specifico riferimento, poi, al vizio di travisamento della prova, questa Corte non intende discostarsi dal proprio consolidato orientamento sulla natura di esso, in base al quale, in virtù della previsione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., novellata dall’alt. 8 I. n. 46 del 2006, il controllo del giudice di legittimità si estende alla omessa considerazione o al travisamento della prova, purché decisiva, con la precisazione che ciò che è deducibile in sede di legittimità e rientra, pertanto, in detto controllo è solo l’errore revocatorio (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata, introdotto con la suddetta novella, non può che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse), mentre ad esso è estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per “brani” né fuori dal contesto in cui è inserito” (cfr. Sez. 5 n. 8094 dell’11/01/2007, Rv. 236540; n. 18542 del 21/01/2011, Rv. 250168). Ne consegue che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, restando pertanto inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio.
Peraltro, nel caso di doppia conforme, come quello all’esame, questa Corte e questa stessa sezione hanno costantemente chiarito che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione quando il giudice d’appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice o quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti [cfr. Sez. 4 n. 44765 del 22/10/2013, Rv. 256837; n. 5615 del 13/11/2013 Ud. (dep. 04/02/2014), Rv. 258432; n. 4060 del 12/12/2013 Ud. (dep. 29/01/2014), Rv. 258438; cfr., anche più di recente, sez. 2 n. 7986 del 18/11/2016 Ud. (dep. 20/02/2017), Rv. 269217].
Macroscopicità ed evidenza che, nel caso all’esame, non solo non ricorrono, ma riguarderebbero in ogni caso un dato incompleto, estrapolato da un maggior compendio probatorio, diffusamente esaminato dai giudici di merito e da questi valutato in maniera conforme, non potendosi neppure apprezzare nel ragionamento svolto da parte ricorrente l’idoneità del dato che si assume travisato, per la sua particolare forza dimostrativa, a disarticolare il ragionamento probatorio svolto dalla Corte di merito sulla scorta di elementi plurimi e concordanti.
5. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Con riferimento alla posizione di garanzia assunta dall’imputata, la Corte di merito, rispondendo alle censure svolte dall’appellante, ha ritenuto che la documentazione acquisita (visura camerale allegata dalla difesa) confermasse come, alla data dell’infortunio, la stessa fosse, non solo consigliere del consiglio di amministrazione della società, datore di lavoro, ma anche consigliere delegato e responsabile tecnico, a nulla rilevando la sua nomina, successiva all’infortunio, alla carica di presidente del C.d.A., altresì sottolineando che la P.A. aveva sottoscritto il documento di valutazione dei rischi, della cui inidoneità si controverte.
Da tale complessa condizione soggettiva, quindi, ha tratto l’esistenza di una specifica posizione di garanzia alla quale ha ricondotto il dovere di vigilanza violato e, ancor prima, l’obbligo di imposizione di regole prudenziali orientative dei comportamenti dei lavoratori, in relazione ai presidi specifici a tutela della loro sicurezza, riportate nella imputazione.
Stante la portata della contestazione, pertanto, di nessun pregio risultano le argomentazioni difensive sull’utilizzo del termine responsabile tecnico, dal momento che neppure la difesa ha negato la posizione di datore di lavoro della P.A., omettendo peraltro di operare un effettivo controllo con la motivazione censurata con specifico riferimento alla sottoscrizione del documento di valutazione dei rischi incriminato.
Il ragionamento svolto dalla Corte territoriale è, in definitiva, del tutto coerente con i principi, anche di recente affermati da questa sezione, secondo cui, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 8118 dell’ 01/02/2017, Rv. 269133; n.49402 del 13/11/2013, Rv. 257673; n. 49732 dell’11/11/2014, Rv. 261181).
6. E’, infine, manifestamente infondato anche l’ultimo.
La Corte di merito ha ritenuto l’imputata non meritevole del beneficio della non menzione, rilevando che gli elementi addotti a difesa non erano idonei ad elidere il rilievo assegnato al grado di colpa – non lieve – che ha riguardato la violazione di elementari norme di sicurezza e alle conseguenze derivatene (una inabilità temporanea dell’infortunato, protrattasi per parecchi mesi).
Nessuna violazione di legge è ravvisabile nell’applicazione che la Corte territoriale ha fatto dell’istituto in questione, atteso che i parametri utilizzati dal giudice di merito rientrano tra le circostanze di cui all’art. 133 cod. pen., direttamente richiamate dalla norma in esame.
Sul punto, giova peraltro un richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la concessione del beneficio in esame è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice sulla base di una valutazione delle circostanze di cui all’art. 133 cod. pen., senza che sia necessaria una specifica e dettagliata esposizione delle ragioni della decisione [cfr. sez. 2 n. 1 del 15/11/2016 ud. (dep. 02/01/2017), Rv. 268971], non potendo il giudice ricorrere ad elementi estranei a quel paradigma normativo (cfr. sez. 3, n. 35731 del 26/06/2007, Rv. 237542; sez. 6 n. 48948 del 07/10/2016, Rv. 268257).
7. L’inammissibilità del ricorso, precludendo l’instaurarsi di un valido rapporto processuale in questo grado di giudizio, non consente alla causa estintiva del reato (nel caso di specie, la prescrizione) verificatasi dopo la sentenza d’appello, di operare ed impedire il consolidarsi della pronuncia di condanna (cfr. Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266; n. 33542 del 27/06/2001, Rv. 219531; n. 23428 del 22/03/2005, Rv. 231164; sez. 6 n. 25807 del 14703/2014, Rv. 259202; sez. 1 n. 6693 del 20/01/2014, Rv. 259205).
8. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in €. 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il giorno 26 settembre 2017

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