Incendio all’interno dell’opificio industriale di una ditta di vernici. Responsabili datori di lavoro e RSPP.
Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: GIANNITI PASQUALE
Data Udienza: 06/12/2016
Fatto
1.Secondo quanto indicato nella sentenza di primo grado (nello svolgimento del processo), verso le ore 10,15 del 15 maggio 2006 all’interno dell’opificio industriale della srl P., a Pisogne, si verificava un incendio di notevoli dimensioni, in conseguenza del quale uno dei dipendenti dell’Impresa (D.B.) decedeva, mentre altri due dipendenti (F.G. e B.R.) subivano serie ustioni.
Gli accertamenti compiuti nei giorni seguenti consentivano di accertare che l’incendio era stato provocato dallo sversamento di un quantitativo non trascurabile di acetone (liquido altamente infiammabile), da una cisternetta da 1000 litri, a causa del tranciamento del condotto, chiuso da una valvola, di fuoriuscita del liquido, avvenuto durante il trasporto della cisternetta su di un muletto condotto dal F.G., e precisamente al momento in cui il muletto faceva ingresso nel capannone.
Successivamente il Pubblico Ministero acquisiva il rapporto di infortunio, redatto dall’ASL di Vallecamonica, e disponeva consulenze tecniche dirette ad accertare le cause dell’incendio e della morte del D.B.; e, all’esito di tali incombenti, richiedeva al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia il rinvio a giudizio di N.L. e N.A. (soci e amministratori della società P. Vernici), nonché di F.R. (direttore dello stabilimento e responsabile della prevenzione infortuni e della sicurezza).
All’udienza preliminare, tutti gli imputati, dopo avere fornito la prova del risarcimento del danno, chiedevano di essere giudicati con rito abbreviato.
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, quale Giudice dell’abbreviato, ritenutane la necessità ai fini del decidere, disponeva ai sensi dell’art. 441 comma 5 c.p.p., l’audizione dell’Ing. M.B., consulente del P.M., dei verbalizzanti S.G. e T.P., e di B.G. (responsabile della logistica della P. Vernici srl), e, dopo la conclusione delle parti, dichiarava N.A., N.L. e F.R. responsabili dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose commessi in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nonché del delitto dì incendio colposo, assolvendo nel contempo i predetti dalla residua imputazione di cui all’art. 437 c.p. per insussistenza del fatto.
2.La Corte di appello di Brescia con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza emessa dal Giudice dell’abbreviato:
– ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di N.A., N.L. e F.R. in relazione ai reati di cui agli artt. 449 e 590 c.p., perché estinti per intervenuta prescrizione, mentre,
– quanto al reato di cui all’art. 589, ha ritenuto le già concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante ed ha ridotto la pena nei confronti di ciascuno degli odierni ricorrenti (in considerazione: del fatto che era risultato a carico degli imputati il solo profilo di colpa imputati, concernente la valutazione del rischio e la carente formazione del personale; dell’avvenuto risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima; nonché dell’indiscutibile imprudenza del caporeparto F.G.), concedendo a tutti il beneficio della non menzione.
3. Avverso la sentenza della Corte territoriale, tramite i rispettivi difensori di fiducia, propongono ricorso tutti e tre gli imputati.
4. Il ricorso presentato nell’interesse di N.L. è affidato a due motivi di ricorso.
4.1. Nel primo si deduce vizio di motivazione e travisamento delle prove sia con riguardo alla conoscenza da parte dei dipendenti delle corrette procedure di movimentazione delle cisternette contenenti liquido infiammabile sia con riguardo alla conoscenza delle corrette procedure di emergenza; sia con riguardo alla informazione delle procedure di emergenza.
Secondo il ricorrente la Corte sarebbe incorsa nei suddetti vizi laddove – dopo aver preso atto che la sentenza di primo grado aveva ritenuto sussistente un unico addebito colposo (e cioè l’aver effettuato la movimentazione della cisternetta in maniera scorretta e l’avere poi proceduto nella gestione della fase di emergenza senza il necessario rispetto delle norme di prevenzione antincendio) – avrebbe ricondotto la scorretta movimentazione della cisternetta nell’addebito della insufficienza ed inadeguatezza del documento di valutazione dei rischi e la scorretta gestione della fase di emergenza nella impreparazione dei dipendenti e, quindi, ad una carente loro informazione.
Tanto opinando, la Corte non avrebbe correttamente applicato il pur enunciato principio per il quale il concetto di valutazione dei rischi deve essere inteso in senso sostanziale (con la conseguenza che qualsiasi difetto formale avrebbe dovuto essere inteso superato dalla conoscenza effettiva dei rischi da parte dei lavoratori dipendenti) e non avrebbe considerato che, come precisato nella sentenza di primo grado (pp.7 ed 8) le cause del sinistro erano state il trasporto inadeguato ed il mancato rispetto delle norme di sicurezza aziendali da parte del dipendente F.G. che aveva gestito la fase del trasporto e (unitamente al dipendente B.R.) la fase dell’emergenza.
Il vizio risulterebbe dal testo della sentenza impugnata letto alla luce della sentenza di primo grado, della deposizione testimoniale di B.G. e degli argomenti contenuti nell’atto di appello (con richiamo alle osservazioni formulate dal consulente tecnico di parte, Ing. M.). In particolare, la Corte territoriale – dopo aver evidenziato (riportando il contenuto della prima sentenza) che le norme aziendali, di gestione delle emergenze, erano conosciute dai dipendenti – ha ritenuto che la totale sintonia con la quale avrebbero agito F.G. e B.R. sarebbe stata sintomatica di una loro carente informazione. Ha inoltre rintracciato altro elemento da cui desumere la pretesa carenza informativa nella mancata adeguata preparazione del F.G. (che, nella gestione dell’emergenza, avrebbe agito con margini di discrezionalità proprio perché non vi erano precise e specifiche procedure); senza considerare che all’interno della P. vi erano delle prescrizioni per gestire una situazione di emergenza conseguente allo sversamento di liquido infiammabile a prescindere dalle cause che avevano determinato la rottura dello scarico della cisternetta.
4.2. Nel secondo si deduce violazione dell’art. 4 del d. Lgvo n. 626/1994 nonché degli artt. 43 e 40 c.p. in punto di asserita inidoneità o incompletezza del documento di valutazione dei rischi con specifico riguardo all’utilizzo scorretto della movimentazione delle cisterne contenenti liquido infiammabile.
Secondo il ricorrente sarebbe risultato provato che i dipendenti della P. erano informati che la movimentazione delle cisterne non poteva avvenire con le prolunghe della valvola in uscita e che tali accessori potessero essere utilizzati esclusivamente per la fase di spillatura. Pertanto l’asserita inadeguatezza del documento di valutazione non sarebbe in relazione causale con l’infortunio. La causalità sarebbe stata configurabile ove fosse stato accertato che l’evento non si sarebbe verificato se all’intemo del documento di valutazione dei rischi fosse stato indicato il divieto di movimentazione delle cisterne con le flange inserite.
Ad analoga conclusione, secondo il ricorrente, si dovrebbe pervenire anche con riguardo alle procedure da seguire in caso di emergenza, in quanto dette procedure erano previste e conosciute dal F.G. e dal B.R., come espressamente detto nella sentenza impugnata.
5. Il ricorso presentato nell’interesse di N.A. denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in punto di affermazione di penale responsabilità sotto diversi profili.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe affermato la sua responsabilità per il decesso del dipendente D.B. – quale legale rappresentante della P. vernici srl, e, quindi, datore di lavoro del D.B. – in quanto lui non aveva provveduto ad una adeguata valutazione del rischio specifico, in particolare, quello relativo alla movimentazione delle cisternette contenenti acetone e non aveva attuato una reale formazione dei dipendenti in funzione antincendio.
Tanto affermando, tuttavia, la Corte non avrebbe considerato che risultava provato in atti (e in particolare dalla deposizione resa dal teste B.) che la formazione ed informazione dei dipendenti (e, in particolare, dei due capi reparto, F.G. e B.R., che avevano avuto un ruolo fondamentale nella causazione dell’evento) era stata realmente effettuata. Inoltre la condotta tenuta dal F.G., nella fase successiva alla rottura del bocchettone, avrebbe dovuto essere fatta rientrare nei canoni di imprevedibilità e anormalità; al contrario, la Corte, con un ragionamento a posteriori, ha ritenuto che gli atti compiuti dal dipendente in quella situazione (e in particolare, dopo aver causato lo spandimento dell’acetone, l’avere trasportato il liquido infiammabile in via di spandimento al di fuori dello stabilimento, causando in questo modo l’incendio, nel quale aveva trovato la morte il D.B.) erano il frutto della sua impreparazione ad affrontare una emergenza.
Inoltre la Corte non ha considerato che lo spandimento del liquido infiammabile non sarebbe stato causa di nulla se fossero state rispettate le istruzioni del piano emergenza interno, che prevedevano, in caso di spandimento dei liquidi, in primo luogo di premere il pulsante di emergenza (che avrebbe attivato le numerose procedure di sicurezza, illustrate nella memoria depositata in data 13 marzo 2009 ed allegata al ricorso ai fini dell’autosufficienza dello stesso) e, in secondo luogo, di intervenire, se ciò non comportava rischi per la propria incolumità, con i mezzi di pronto intervento a disposizione. Orbene, secondo il ricorrente, entrambe le suddette regole, non erano state rispettate dal capo reparto F.G. (ex membro della squadra antincendio) e la Corte ha attribuito al datore di lavoro una responsabilità sulla base di un controllo sulle capacità psicologiche di un soggetto non previsto da nessuna norma di legge.
Infine, la Corte avrebbe violato il principio dell’onere della prova laddove aveva ritenuto insufficiente la prova fornita dalla difesa in punto di avvenuta formazione sul presupposto che la stessa sarebbe stata smentita dal comportamento tenuto in concreto dai lavoratori. Così facendo, la Corte sarebbe erroneamente partita dall’evento finale per giungere a presupporre che, se lo stesso si era verificato, tanto era avvenuto come conseguenza diretta dall’inadeguatezza della preparazione specifica degli addetti. Al contrario la Corte avrebbe dovuto valutare esclusivamente se gli elementi forniti dall’accusa a sostegno della responsabilità dell’imputato fossero sufficienti a supportarne la condanna.
7. Il ricorso presentato nell’interesse di F.R. è affidato a 4 motivi di ricorso.
7.1. Nel primo si deduce vizio di motivazione in punto di informativa fornita dall’azienda ai dipendenti per la movimentazione dei materiali pericolosi e soprattutto di sorveglianza e di direzione sulla gestione dell’attività.
Secondo il ricorrente la Corte sarebbe incorsa in contraddizione laddove, da un lato, ha affermato che lui era presente in azienda al fine di sorvegliare e dirigere il lavoro e la sicurezza, e, dall’altro, ha a lui addebitato la responsabilità per il comportamento irregolare di altro dipendente, a sua volta caporeparto, senza considerare che lui non poteva trovarsi in contemporanea in ogni punto della fabbrica; nonché laddove, da un lato, ha affermato che l’erronea operazione era stata posta in esser in totale sintonia tra il F.G. ed il B.R. e, dall’altro, non ha considerato che la prima cosa che il B.R. aveva imposto al F.G. era stata quella di fermarsi e che lo stesso B.R. aveva dimostrato di avere le informazioni necessarie in ordine alla gestione delle situazioni di emergenza.
7.2. Nel secondo il ricorrente deduce violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., in quanto il capo di imputazione a lui contestato riguardava l’aver mancato di verificare il buono stato del macchinario ed il non averne impedito l’uso; mentre la sua condanna era stata pronunciata per non aver verificato in concreto la carente valutazione dei rischi da parte dei vertici aziendali e l’insufficiente formazione del personale in ordine alla gestione delle situazioni di emergenza.
D’altronde, secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe incongrua laddove, da un lato, ha dato atto che lui era presente in azienda, ne dirigeva il lavoro, otteneva il rispetto da parte dei dipendenti delle disposizioni impartite; e, dall’altro, ha dimenticato di considerare che lui non poteva e non doveva essere presente in contemporanea in ciascun punto dello stabilimento ed osservare il comportamento di ciascun operaio (e men che meno dei capi reparto), che già dovevano sapere come comportarsi; nonché laddove gli è stato addebitato di avere omesso di correggere e integrare le carenze dei documenti aziendali e di imporne poi il rispetto anche a coloro che erano subdelegati nei riguardi degli operai, senza considerare che non competevano a lui la integrazione e la correzione dei suddetti documenti (e men che meno il rispetto delle disposizioni aziendali, peraltro da una persona che, come il F.G., si trovava in una posizione praticamente paritetica alla sua).
7.3. Nel terzo si deduce violazione del principio dell’onere della prova laddove la sentenza impugnata, fondata su pretese carenze dei documenti informativi dei rischi aziendali e su pretesa omessa integrazione degli stessi a mezzi di corsi aziendali, è pervenuta ad affermazione di penale responsabilità non essendo stata data sul punto prova dettagliata e precisa da parte dell’azienda, nonostante che fosse risultato provato che le movimentazioni di materiale infiammabile dovevano seguire determinate procedure e che detta circostanza era stata resa nota.
In altri termini, secondo il ricorrente, non spettava alla difesa dare la prova che erano state fornite idonee informazioni e istruzioni ai lavoratori e ai preposti; ma spettava alla pubblica accusa dare la prova del contrario.
7.4. Nel quarto il ricorrente deduce vizio di motivazione in punto di addebito di responsabilità.
Secondo il ricorrente, la Corte sarebbe incorsa in motivazione illogica laddove gli ha addebitato di non aver verificato la carente valutazione dei rischi da parte dei vertici aziendali e l’insufficiente formazione del personale in ordine alla gestione delle situazioni di emergenza, senza considerare che lui non era tenuto a svolgere detta attività e che comunque i corsi formativi erano stati tenuti dai Vigili del fuoco (ragion per cui detti corsi non potevano non aver avuto ad oggetto la prevenzione degli incendi ed il comportamento relativo al rischio di incendio, che si verifica in caso di perdita dei liquidi combustibili, trattandosi proprio della ragione che giustificava i suddetti corsi formativi).
Diritto
1. Il ricorso non è fondato e, pertanto, deve essere rigettato.
2. Può essere utile ricordare che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, ad esito di giudizio abbreviato, ha ritenuto che gli elementi acquisiti agli atti consentivano di individuare la causa prossima dell’incendio (a seguito del quale erano derivati il decesso del dipendente D.B. e le lesioni dei dipendenti B.R., F.G. e P. R.) nella rottura del tubo di deflusso del liquido infiammabile della cisternetta, nel conseguente sversamento del liquido al suolo, ed infine nell’innesco dell’incendio a causa del mancato rispetto delle normative ATEX (utilizzo di un muletto non omologato ATEX e/o tentativo di travaso dei liquidi senza previa messa a terra dei contenitori).
Il Giudice dell’abbreviato, in primo luogo, ha esaminato l’assunto del Pubblico Ministero; assunto secondo il quale, tra l’altro, a) sarebbe stato un antecedente causale dell’incendio il non avere redatto un adeguato documento di valutazione dei rischi, e cosi il non aver stabilito le misure di sicurezza da attuarsi per la movimentazione delle cisterne; b) da tale omissione sarebbe derivato che il dipendente F.G. aveva effettuato la movimentazione di una cisterna recante prolunga che fuoriusciva dalla sagoma, circostanza questa che a sua volta aveva favorito la rottura del tubo di scarico (a causa di un sobbalzo o di un urto contro un ostacolo) e la conseguente fuoriuscita del liquido;
Al riguardo di detto assunto, il Giudice di primo grado:
– ha premesso che risultava accertato che: a) la rottura del tubo di deflusso del liquido era avvenuta durante il trasporto della cisternetta all’interno del capannone, attuato dal dipendente F.G. mediante muletto;
b) tale rottura, a seguito della quale era stato divelto il tubo nel punto in cui il produttore aveva saldato il tubo stesso alla flangia avvitata sul corpo della cisterna, era avvenuta a causa di un urto della prolunga del tubo di deflusso contro un ostacolo fisso, al momento dell’ingresso del muletto nel capannone, o subito dopo;
– ha ritenuto una imprudenza utilizzare la cisterna durante il trasporto con l’assetto previsto per lo spillaggio del liquido, vale a dire un assetto in cui il tubo di deflusso fuoriusciva dalla sagoma protettiva; tale imprudenza aveva consentito che un urto accidentale (del tutto prevedibile, in caso di trasporto) potesse interessare (non il telaio protettivo della cisterna, ma) il tubo che consentiva lo svuotamento del pericolosissimo liquido infiammabile (e cioè il punto più delicato della struttura) ed era da porsi in diretto rapporto di causalità con il sinistro, dal momento che il trasporto della cisterna in assetto ordinario (vale a dire senza la prolunga) avrebbe sicuramente evitato la rottura del tubo (dato che il tubo di fuoriuscita saldato alla cisterna sarebbe stato in tal caso contenuto nella sagoma del telaio protettivo, e quindi in nessun modo avrebbe potuto urtare accidentalmente contro ostacoli, né conseguentemente staccarsi dalla flangia), e quindi lo sversamento del liquido infiammabile (a sua volta condizione necessaria del successivo incendio, e dei danni alle persone);
– ha ritenuto ancora che causa del sinistro era stata, oltre al trasporto inadeguato, il mancato rispetto delle norme di sicurezza aziendali, che prevedevano in primo luogo, in caso di spandimento di prodotti chimici pericolosi per infiammabilità, l’obbligo di premere in primo luogo il pulsante di allarme più vicino, e, in ogni caso, l’obbligo di messa a terra di tutte le apparecchiature che travasano liquidi; entrambe le suddette violazioni erano ascrivibili non soltanto al fatto del dipendente che aveva “gestito” la fase del trasporto e quella dell’emergenza, vale a dire F.G., ma anche al fatto del datore di lavoro. Questi, avuto riguardo al disposto di cui all’art. 35 D.L. 626/94, nel documento redatto a norma dell’art. 4 D. L.vo n. 626/94, avrebbe dovuto evidenziare il rischio connesso ad un trasporto anomalo delle cisterne (tanto più che, nel documento di valutazione dei rischi, datato dicembre 1996, si faceva riferimento a pregressi episodi di spandimento di liquidi pericolosi, per il tranciamento delle valvole di fondo durante la movimentazione dei contenitori), in difetto di condizioni di sicurezza e comunque con modifiche della loro sagoma di trasporto; ed avrebbe in ogni caso dovuto prendere misure efficaci (emanazione di ordini di servizio per la movimentazione delle cisterne contenenti liquidi infiammabili e comunque pericolosi, e vigilanza sulla loro puntuale osservanza) idonee ad impedire tale rischio.
Secondo il giudice di primo grado, tale omissione (di informazione dei dipendenti sul rischio; di indicazione delle corrette procedure da attuare; di vigilanza sulla loro puntuale osservanza) aveva avuto diretta efficienza causale nella produzione del sinistro, costituendo lo spandimento al suolo dell’ingente quantitativo di acetone contenuto nella cisternetta antecedente causale necessario dell’incendio e dei danni (a persone e cose) ad esso conseguenti; né poteva dirsi che le successive violazioni ascrivibili ai dipendenti F.G. e B.R. (i quali avevano tentato il travaso del liquido infiammabile prima di dare l’allarme) avessero avuto carattere di tale anomalia ed eccezionalità (fossero in altri termini così imprevedibili) da interrompere il nesso causale tra la condotta anteriore (che aveva cagionato lo spandimento al suolo di un ingente quantità di liquido infiammabile) e l’innesco dell’incendio, secondo il disposto dell’art. 41 comma 2 c.p.
In definitiva, secondo il Giudice dell’abbreviato, la condotta colposa sopra individuata era riferibile a tutti gli imputati:
-a N.A., dal momento che ogni obbligo relativo alla sicurezza faceva capo a lui, in quanto Presidente del C.d.A. e Consigliere delegato della P. Vernici sri, il quale (pur non occupandosi direttamente se non della amministrazione della società), non aveva rilasciato deleghe ad alcuno in materia di sicurezza;
-a N.L., in quanto di fatto responsabile della gestione aziendale, e come tale indicato in posizione apicale nell’elenco dei responsabili aziendali nel piano di emergenza interno redatto sin dal 1997;
-a F.R., in quanto: era indicato tra i responsabili nel citato piano di sicurezza interno 1997; aveva frequentato nel maggio 2005 un corso per responsabile del servizio di prevenzione e protezione; nella memoria del 12 marzo 2009 si era qualificato come direttore della produzione e addetto alla sicurezza, sia pure senza potere di spesa.
3. E la Corte territoriale – dopo aver rilevato che le considerazioni espresse dal primo giudice integravano un assetto motivazionale corretto sotto il profilo logico-giuridico e pienamente coerente rispetto alle risultanze istruttorie; e che l’omogeneità dei principali motivi di appello proposti dai difensori ne consentiva una trattazione unitaria, fatte salve le dovute precisazioni – ha in primo luogo rilevato che, nella ricostruzione fattuale della vicenda, il Giudice dell’abbreviato era giunto a due conclusioni, che alla stregua delle risultanze d’indagine potevano ritenersi consolidate:
– la rottura del tubo di deflusso dell’acetone, che fuoriusciva dalla sagoma della cisterna e dal telaio metallico entro cui era collocata per la movimentazione per circa cm. 20, era avvenuta mentre detta cisterna era trasportata dal F.G. su un muletto elettrico, per effetto dell’urto del tubo contro un ostacolo fisso, al momento dell’ingresso nel capannone o subito dopo;
– la causa dell’innesco andava verosimilmente ricondotta a una scarica elettrica provocata dall’avvicinamento al muletto di un contenitore metallico non equipotenziale nel tentativo di travasare l’acetone dalla cisterna rotta.
Sulla base di tale ricostruzione, il Giudice dell’abbreviato aveva ritenuto sussistente un unico addebito colposo, causalmente riconducibile al sinistro, ovvero quello di avere effettuato la movimentazione della cisterna in maniera scorretta (con l’assetto previsto per lo spillaggio del liquido infiammabile, anziché in assetto ordinario, senza la prolunga che fuoriusciva dal telaio protettivo della cisterna) e di avere poi proceduto nella gestione della successiva fase di emergenza senza il necessario rispetto delle norme di prevenzione antincendio, condotte poste in essere in primis dal dipendente F.G., ma direttamente riconducibili all’insufficienza e inadeguatezza del documento di valutazione dei rischi, in violazione degli artt. 4 e 35 del D. L.vo n. 626/1994 (in vigore all’epoca dei fatti).
4. Tanto premesso, inammissibile e comunque non fondato è il secondo motivo di ricorso presentato nell’interesse dell’imputato F.R., che viene trattato per primo, in quanto involgente questione processuale, quale per l’appunto la pretesa violazione del principio processuale fissato dall’art. 521 c.p.p.
Il motivo è inammissibile in quanto ha ad oggetto un profilo di doglianza che non aveva formato oggetto di appello.
In ogni caso il motivo è infondato.
Invero, le Sezioni Unite (cfr. sent. n.36551 del 15/07/2010, Carrelli, Rv.248051), hanno affermato che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non può esaurirsi nel mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia venuto a trovare nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
E, in materia di reati colposi, questa Sezione ha precisato che non sussiste violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (sent. n. 35943 del 07/03/2014, Denaro ed altro, Rv. 260161).
Orbene, nella fattispecie in esame:
a) nel capo di imputazione era contestato a tutti gli imputati, ciascuno nella propria qualità, di aver consentito ed autorizzato che il F.G., capo reparto del settore diluenti e catalizzatore della ditta P., per procedere alla pesatura della sostanza, si immettesse, a bordo del muletto, nella “zona reparto polveri e pigmenti”, “zona per la quale non era stato previamente redatto un documento di valutazione dei rischi che, se invece fosse formulato, avrebbe permesso di valutare e stabilire le misure di sicurezza da adottarsi ed attuarsi per la movimentazione delle cisterne”-,
b) come di seguito sarà precisato, il Giudice dell’abbreviato ha ritenuto fondato, tra i tre profili di colpa addebitati dal PM agli imputati, quello di “non avere redatto un adeguato documento di valutazione dei rischi e così non stabilito le misure di sicurezza da attuarsi con la movimentazione delle cisterne”;
c) il medesimo profilo di colpa è stato ritenuto dalla Corte di appello, che, ha stigmatizzato il fatto che il F.R., quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione, aveva la possibilità di verificare in concreto la carente valutazione dei rischi da parte dei vertici aziendali e l’insufficiente formazione del personale in ordine alla gestione delle situazioni di emergenza;
d) l’imputazione è stata precisata fin dalla sentenza di primo grado, anche alla luce delle risultanze acquisite nel corso dell’articolata istruzione alla quale il Giudice dell’abbreviato aveva ritenuto di dover procedere e al cui svolgimento aveva partecipato la difesa dell’imputato; e tale precisazione non ha affatto inciso sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato all’imputato: pertanto, il F.R. è stato nella condizione di difendersi in ordine all’oggetto dell’Imputazione (al riguardo, cfr., “ex plurimis”, Sez. 4, sent. n. 16900 del 2004, Caffaz ed altri, Rv. 228042) e non ricorre alcun vulnus difensivo, proprio perché l’affermazione della di lui penale responsabilità non ha trovato fondamento nell’accertamento di condotte illecite incompatibili, o anche solo eterogenee od eccentriche con quel che la difesa poteva ragionevolmente attendersi dal materiale processuale.
Conclusivamente, deve escludersi che, nel caso in esame, possa parlarsi di mutamento del fatto, inteso come una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassumeva l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto della imputazione tale da determinare un reale pregiudizio dei diritti della difesa.
5. Non fondati sono i profili di doglianza dei ricorrenti, che qui si trattano congiuntamente per la loro connessione, concernenti il documento di valutazione dei rischi, le informative date ai dipendenti della società, nonché la sussistenza e rilevanza causale dei ritenuti profili di colpa.
5.1. In linea generale, è indubbio che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatismo rispetto all’addebito di responsabilità e si impone la verifica, in concreto, della violazione da parte dell’Imputato non solo della regola cautelare (generica o specifica), ma anche della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. “concretizzazione” del rischio).
L’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare, cioè, non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò, che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare sia essa generica o specifica, ma anche se l’autore della stessa potesse prevedere, con giudizio “ex ante” quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.
In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio, che la regola stessa mirava a prevenire; e se l’evento dannoso fosse o meno prevedibile, da parte dell’Imputato (Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245526).
5.2. Facendo corretta applicazione del suddetto principio, la Corte territoriale, si è interrogata, dapprima, sulla sussistenza dell’addebito colposo, mosso dal Giudice di primo grado a ciascuno degli imputati, e, poi, sulla sua rilevanza causale rispetto all’evento letale verificatosi.
5.3. Sotto il profilo dell’addebito colposo, la Corte ha ritenuto che detto addebito era provato per tabulas, in quanto:
-la società – che all’epoca dell’incidente era dotata di un documento di valutazione del rischio datato dicembre 1996, inadeguato e non aggiornato rispetto alle normative sopravvenute (D.L.vo 25/2002 e D.L.vo 233/2003) – era stata contravvenzionata per tale ragione dal Servizio Prevenzione e Sicurezza negli ambienti di lavoro della Asl di Vallecamonica – Sebino con verbale del 9 giugno 2006 (che aveva imposto l’integrazione del documento di valutazione del rischio con le misure di sicurezza da attuare ai sensi della normativa vigente e della normativa tecnica specifica) e, per tale ragione, aveva adottato un nuovo documento di valutazione dei rischi nel settembre 2006 (dvr che era stato giudicato idoneo dalla Asl, che aveva certificato l’ottemperanza alle prescrizioni impartite con verbale del 7.11.2006);
-soltanto nel nuovo documento di valutazione del rischio (in particolare, pp. 8-11 e 16-17): compariva la previsione delle specifiche modalità da adottare per il trasporto delle cisterne contenenti liquidi infiammabili; si stabiliva espressamente che nelle fasi di trasporto interno/esterno le stesse “dovranno essere ripristinate allo stato originale così come fornite dal produttore” e, dunque, previa rimozione del tubo di deflusso, si prevedeva il pericolo di urti con ostacoli fissi e mobili o comunque di danneggiamento e/o rovesciamento del carico e il conseguente versamento di liquidi infiammabili; si stabiliva come preventive misure di sicurezza che “le vie di transito dovranno essere completamente libere e dovranno essere larghe almeno cm 70 oltre l’ingombro delle macchine”; si stabilivano con precisione gli interventi da attuare in caso di sversamento di liquidi;
-la carenza del documento di valutazione dei rischi presente in azienda all’epoca dell’infortunio era tanto più grave, sotto il profilo della prevedibilità dei rischio di spandimento al suolo di liquidi infiammabili e del correlato pericolo di incendio, ove si consideri che lo stesso (allegato per estratto alla consulenza tecnica di parte prodotta nel corso del giudizio abbreviato) dava atto di precedenti episodi aziendali di sversamento di prodotti liquidi sulle aree di lavoro “in particolare durante la movimentazione degli imballi, causati tra l’altro da “tranciamenti delle valvole di fondo”, rispetto ai quali tuttavia non si erano date adeguate risposte mediante la predisposizione di misure organizzative e di prevenzione per la sicurezza contenute nello stesso documento di valutazione dei rischi.
5.4. La Corte territoriale ha preso in esame l’assunto difensivo del valore solo “formale” del documento di valutazione dei rischi, nel senso che la sua palese incompletezza sarebbe stata nella sostanza “sanata” per effetto dell’attività di formazione e informazione di cui i dipendenti (e il F.G. in particolare quale capo reparto) erano stati comunque destinatari, circostanza comprovata sia dagli attestati di frequenza ai corsi in tema di sicurezza acquisiti, sia dalla deposizione di B.G. (responsabile della logistica della P. Vernici Srl) assunta nel corso del giudizio abbreviato.
Senonché, la Corte, quanto al primo profilo, ha osservato che, sebbene il concetto di valutazione dei rischi debba essere inteso in senso sostanziale e non formale, tuttavia non era condivisibile l’assunto che tendeva a svilire il rilievo del documento di valutazione dei rischi, a fronte di un quadro normativo inequivocabile, che impone l’adozione di uno specifico atto scritto, con contenuti precisi, allo scopo di evitare qualsiasi incertezza sul punto (art. 4 D.L.vo 626/1004, oggi sostituito dall’art. 28 T.U. n. 81/2008).
La valutazione della Corte territoriale risulta sul punto coerente con la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. sent. N. 20129 del 10/03/2016, Serafica ed altro, Rv. 267253), secondo la quale il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro, e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Quanto poi all’assunto difensivo secondo il quale i dipendenti erano stati adeguatamente formati e informati sia in ordine alle corrette modalità di movimentazione delle cisterne, sia con riguardo alle modalità comportamentali da osservare nell’ipotesi di sversamento di liquidi infiammabili, la Corte – facendo buona applicazione del principio dell’onere della prova e argomentando con motivazione che, essendo immune da vizi logici e giuridici, si sottrae da censure nella presente sede – ha ritenuto detto assunto sfornito di decisivi elementi di prova oggettiva.
Invero, era indubbio che una generica attività formativa ed informativa era stata effettuata all’interno dell’azienda (e di ciò facevano fede, oltre alla deposizione del teste a discarico B.G., gli attestati di partecipazioni ai corsi di formazione in materia di sicurezza, le norme comportamentali per i processi produttivi redatte per iscritto e le disposizioni generali di sicurezza consegnate in copia ai dipendenti, nonché il piano di emergenza interno datato 1997); ma dalla lettura di detti documenti risultava come nulla di specifico era stato trasmesso ed acquisito al bagaglio informativo dei lavoratori, con particolare riguardo alle modalità di movimentazione delle cisterne contenenti liquidi infiammabili (ivi compresa la necessità di privarle della prolunga del tubo di deflusso) e alle procedure da adottare per evitare, in caso di spandimento, il prevedibile rischio di un incendio.
A diversa conclusione, secondo la Corte, non poteva neppure pervenirsi in esito alla deposizione del B.G., posto che questi nel corso del proprio esame si era espresso piuttosto genericamente, affermando testualmente “Le cisterne da 1000 litri secondo la normativa di sicurezza sulla quale io aggiorno i dipendenti non possono essere movimentate con prolunghe della valvola di uscita. Tali accessori devono essere utilizzati solo per la fase di spillatura del prodotto. Ai miei corsi di formazione hanno partecipato molti dipendenti, tra i quali il F.G.”, senza tuttavia precisare nello specifico quali erano state le indicazioni e le concrete istruzioni fornite a riguardo ai lavoratori, quali rischi aveva attenzionato per l’ipotesi di errata movimentazione di carichi, quali precauzioni aveva suggerito per far fronte a situazioni di emergenza.
5.5. La Corte territoriale ha anche esaminato le modalità di comportamento individuate dall’azienda in caso di gravi eventi, quali incendi, esplosioni, crolli e fughe di prodotti chimici pericolosi, a prescindere dalle cause scatenanti (c.d. piano di emergenza interno datato 1997, punto A.6).
Al riguardo, ha rilevato come le istruzioni fornite in caso di spandimento di prodotti chimici infiammabili (testualmente a pag. 5: “premere il pulsante di allarme più vicino; intervenire, se ciò non comporta rischio per la propria incolumità, con i mezzi di pronto intervento a disposizione; dare informazioni ed indicazioni al coordinatore delle operazioni o ai capo squadra di emergenza per la valutazione del pericolo reale”) fossero assolutamente carenti ed imprecise, laddove prevedevano genericamente, per un verso, la possibilità per i dipendenti di intervenire, dopo aver dato l’allarme, utilizzando “mezzi di pronto intervento”, per l’altro autorizzavano i singoli lavoratori interessati a scegliere se e con quali modalità farvi fronte.
In altri termini, secondo la Corte di appello, si trattava di istruzioni per gestire le situazioni di grave emergenza del tutto generiche ed imprecise, mentre in un contesto lavorativo come quello della P. Vernici Srl, caratterizzato da altissima pericolosità per la natura dei materiali trattati, era assolutamente indispensabile dettare procedure quanto più possibile precise e stringenti, senza lasciare margini di discrezionalità d’azione ai singoli dipendenti di volta in volta interessati.
5.6. In definitiva, secondo la Corte territoriale, in uno scenario caratterizzato da una rilevante inadeguatezza della valutazione del rischio e dalla presenza di un fattore di pericolo elettivo (rappresentato dal fatto di dover maneggiare nella quotidianità sostanze altamente infiammabili), il contenuto della formazione e dell’informazione del personale dipendente era stato “piuttosto evanescente”.
Le carenze “a monte” del documento di valutazione dei rischi e la mancanza di stringenti procedure comportamentali nel piano di emergenza interno si erano tradotti “a valle” in una carente e, per certi versi, difettosa formazione dei dipendenti. Prova ne era che costoro (nello specifico non solo il F.G., ma anche il B.R.), nella situazione di emergenza venutasi a creare avevano dimostrato una totale inconsapevolezza dei rischi che ne potevano conseguire e una sostanziale “non conoscenza” delle precise procedure da adottare. Detto comportamento era indice del fatto che le informazioni veicolate dall’azienda non erano state evidentemente sufficienti e adeguatamente comprese, a prescindere dalla causa prossima dello sversamento dell’acetone.
5.7. Che poi l’omessa previsione nel documento di valutazione (delle modalità di movimentazione delle cisterne, dell’individuazione dei rischi ad essa connessi e delle corrette procedure da seguire) sia stato in diretto rapporto causale con il tragico evento verificatosi, secondo la Corte (p.15), era di “solare evidenza”, alla luce della dinamica dell’Infortunio avvenuto, essendo quest’ultimo conseguenza di una mancata valorizzazione della intrinseca pericolosità dell’operazione di trasporto delle cisterne, soprattutto di quelle più grandi della portata di 1000 litri (come, appunto, quella coinvolta nell’incidente). ;
Secondo la Corte (pp. 16-17), soltanto un’informazione precisa e completa delle modalità operative da attuare per il trasporto delle cisterne contenenti liquidi infiammabili e la previsione di un protocollo di emergenza assolutamente stringente e preciso avrebbe ragionevolmente evitato l’incendio e la conseguente morte del D.B., perché solo con una conoscenza dei rischi specifici il lavoratore poteva effettuare scelte e attuare comportamenti realmente consapevoli, che non compromettessero la sicurezza propria ed altrui.
E nel caso di specie, le carenze riscontrate erano state indubbiamente rilevanti, sotto il profilo causale, rispetto all’evento mortale occorso, in quanto questo aveva per l’appunto rappresentato la “concretizzazione del rischio” che le regole cautelari violate (ovvero la doverosa attività di valutazione del rischio, formazione ed informazione dei lavoratori) miravano a prevenire.
5.8. Orbene, entrambi i giudici di merito, nell’affermare la penale responsabilità degli imputati, si sono attenuti ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e sopra richiamati: rispetto ai ricorrenti, il verificarsi dell’infortunio ha costituito l’indubbia concretizzazione del rischio, alla cui prevenzione era preordinata la normativa dagli stessi violata.
Inoltre, la Corte di merito ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso argomentativo che non presenta aporie di ordine logico e che risulta perciò immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità.
5.9. Il ricorrente N.L., nel primo motivo di ricorso, denuncia il travisamento della prova (peraltro non deducibile nel caso di cosiddetta “doppia conforme”: cfr. tra le tante, Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636; Sez. 2, n. 5223/2007, Rv. 236130), ma, così facendo, propone in realtà una rilettura degli elementi di prova, che, come è noto, è preclusa a questa Corte regolatrice.
Al riguardo, si deve ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; tale valutazione complessiva spetta al giudice del merito, al quale il giudice di legittimità non può sostituirsi (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
E la congiunta lettura delle sentenze di entrambi i giudici di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice.
6. Non fondato è il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato N.A. laddove deduce l’abnormità della condotta tenuta dal F.G..
6.1. In tema di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’offesa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano considerarsi tali quelle che diano luogo a una serie causale, sebbene non del tutto autonoma rispetto a quella riferibile all’agente, che si atteggi in termini di assoluta anomalia, eccezionalità e imprevedibilità (Sez. 4, sent. n. 13939 del 30/01/2008, Bauwens, Rv. 239593).
In particolare, è stato chiarito (Sez. 4, sent. n. 7267 del 10/11/2009, 2010, Iglina, Rv. 246695) che la condotta colposa del lavoratore infortunato non esclude la responsabilità dell’imprenditore, poiché il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possano pregiudicarne l’integrità psico-fisica: l’imprenditore è esonerato da responsabilità soltanto nel caso in cui il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile (e non anche nel caso in cui l’irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni).
Con particolare riferimento alla sicurezza sul luogo di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ritiene che presenti efficacia interruttiva del rapporto causale esistente tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’offesa soltanto il comportamento abnorme del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Sez. 4, sent. n. 14440 del 05/03/2009, Ferraro, Rv. 243881).
In tale senso è abnorme soltanto la condotta del dipendente infortunato che esuli dai limiti delle attribuzioni proprie del segmento di lavoro ad esso attribuito, non insistendo nell’area di rischio della lavorazione svolta.
In ogni caso, quand’anche sussista una condotta colposa del lavoratore, questa non potrà comunque spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti destinatari di obblighi di sicurezza che abbiano violato prescrizioni in materia antinfortunistica (Sez. 4, sent. n. 12115 del 03/06/1999, Grande, Rv. 214999), in quanto le disposizioni prevenzionistiche hanno la funzione primaria di eliminare o almeno ridurre i rischi per l’incolumità fisica dei lavoratori intrinsecamente connaturati ai processi produttivi dell’attività di impresa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi derivino da condotte colpose dei prestatori di lavoro.
6.2. La Corte d’appello ha preso in esame l’assunto difensivo secondo il quale i vertici dell’azienda facevano ragionevole affidamento nel F.G., in ragione del suo ruolo di caporeparto, del fatto che questi aveva frequentato un corso specifico antincendio presso i vigili del fuoco di Brescia ed era stato componente, per sua stessa ammissione, della squadra antincendio interna fino al 2002. In altri termini, secondo la difesa, la condotta del F.G. e quella del di lui collega B.R. nella gestione dell’emergenza sarebbe stata (non soltanto gravemente negligente e imperita, in totale violazione delle norme vigenti all’interno dell’azienda, ma) eccezionale e abnorme, laddove i due avevano fatto avvicinare i due contenitori di metallo con cariche elettrostatiche diverse, da cui era scaturita la scintilla che aveva innescato l’incendio. Tale condotta, secondo la difesa, sarebbe stata tale da interrompere ogni nesso di causa tra gli addebiti eventualmente ritenuti sussistenti a carico degli imputati e il successivo disastro verificatosi.
Senonché, la Corte territoriale ha confermato il rigetto di detto assunto, già operato dal primo giudice, sulla base delle seguenti argomentazioni.
In primo luogo, secondo la Corte, l’operato del F.G., ben lungi dall’essere un atto abnorme ed irrazionale, era stato espressione concreta di quel difetto di formazione e informazione di cui dovevano rispondere gli imputati. Il F.G. aveva sì agito d’istinto e sotto la concitazione del momento, trascurando di considerare il rischio di avvicinare al muletto il contenitore metallico senza adottare la procedura di messa a terra, ma ciò aveva fatto, a parere della Corte, proprio perché non era stato adeguatamente preparato e formato per gestire in concreto una situazione di emergenza come quella verificatasi.
In altri termini, F.G. aveva cercato di porre in essere un intervento riparatore per limitare lo spandimento a terra dell’acetone, dopo essere uscito dal capannone (con una manovra che trovava la propria logica nell’esigenza istintiva da lui avvertita di far riversare all’esterno, all’aria aperta, la sostanza infiammabile e volatile, e che il consulente del pubblico ministero aveva giudicato pronta e coraggiosa, riferendo che diversamente lo sversamento di grandi quantitativi di solvente all’Interno dello stabilimento “avrebbe provocato nel giro di pochi secondi la concentrazione nell’aria di un’enorme quantità di vapori di acetone tossici con la quasi certezza di un innesco con conseguente esplosione o incendio con effetti barici in ambiente esterno”).
Secondo la Corte, il successivo avvicinamento dei due contenitori metallici, pur costituendo una grave imprudenza, non aveva integrato quel concetto di “comportamento abnorme” invocato dalle difese a fini assolutori: sia perché detta espressione richiama una condotta assolutamente eccezionale e che si pone completamente al di fuori della possibile prevedibilità per il datore di lavoro, mentre, nel caso di specie, lo stesso piano di emergenza interno prevedeva (e non escludeva) la possibilità per il lavoratore di intervenire con i mezzi di pronto intervento a disposizione; sia perché F.G. e B.R. avevano agito in totale sintonia, nel senso che entrambi, alla vista del solvente che fuoriusciva dalla cisterna, avevano deciso di intervenire avvicinando al muletto un contenitore metallico per recuperare il solvente rimasto nella cisterna, e, così operando, avevano dato contezza di una generalizzata e comune impreparazione di fronte a un evento, come quello verificatosi, assolutamente prevedibile (al punto che già il documento di valutazione dei rischi del 1997 citava precedenti episodi di versamento di liquidi infiammabili).
6.3. Anche sotto questo profilo, entrambi i giudici di merito risultano essersi attenuti, con motivazione esente da censura, ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità.
7. Non fondati, infine, sono i profili di doglianza contenuti nei ricorsi presentati nell’interesse degli imputati N.A. e F.R. e N.A., concernenti la specifica posizione dei predetti.
7.1. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di precisare di recente (cfr. sent. N. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn ed altri, Rv. 261109, emessa in fattispecie nella quale la Corte territoriale aveva confermato il giudizio di colpevolezza dell’amministratore delegato, dei dirigenti aziendali e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione per la morte di alcuni dipendenti provocata dalla mancata adozione di efficaci misure antincendio sottovalutate nel documento di valutazione dei rischi) che, in tema di prevenzione degli infortuni:
-il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori;
-il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri.
In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte nella citata sentenza (par. 21) – dopo aver premesso che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nel vigente sistema prevenzionistico, svolge un importante ruolo di collaborazione con il datore di lavoro – hanno ribadito i “rilevanti compiti”, che gravano sullo stesso e che consistono nell’Individuazione e valutazione dei rischi, nonché nel proporre adeguate misure preventive e protettive. “Questa figura – rilevano testualmente le Sezioni Unite – svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: essa, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze … è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro. La sua attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell’evento illecito. Una diversa soluzione rischierebbe di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica”.
Dal principio enunciato emerge la sicura riferibilità del ruolo di garante in capo al F.R. ed il conseguente, che gravava sullo stesso, di svolgere in autonomia, nel rispetto del proprio sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro, di sollecitarlo al necessario aggiornamento del documento di valutazione rischi e, in generale, di dissuaderlo dall’ intraprendere o dal mantenere scelte pregiudizievoli per la sicurezza dei lavoratori.
7.2. Orbene, la Corte di appello, nella impugnata sentenza, ha fatto buon governo anche dei suddetti principi laddove ha preso in esame la posizione di garanzia dei suddetti due ricorrenti.
Quanto a N.A., la difesa aveva sostenuto che lo stesso, sebbene presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato della P. Vernici Sri, non si sarebbe mai occupato degli aspetti produttivi e operativi (come riferito dal fratello L. nel corso del proprio interrogatorio e confermato da alcuni dei dipendenti sentiti a sommarie informazioni testimoniali). Senonché, la Corte territoriale ha rilevato che N.A., in ragione del ruolo ricoperto, non poteva che essere individuato a tutti gli effetti quale formale datore di lavoro della vittima e, in quanto tale, anche a lui (come al fratello L.) competeva, per legge, la redazione del documento di valutazione dei rischi (compito questo che, come è noto, secondo il disposto dell’art. 1 comma 4 ter del D.L.vo 626/1994 vigente all’epoca dei fatti, non era neppure delegabile). In definitiva, la ripartizione interna dei compiti con il fratello L. non escludeva la responsabilità di N.A., una volta accertato che lo stesso non aveva rilasciato deleghe a terzi soggetti in tema di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Quanto poi al F.R., la difesa aveva sostenuto che la preparazione professionale del F.G. avrebbe esentato l’odierno ricorrente, direttore della produzione e responsabile del servizio di prevenzione e protezione, dall’attività di costante vigilanza sull’osservanza da parte del caporeparto della normativa aziendale in tema di sicurezza.
Senonché, la Corte territoriale ha sottolineato che il F.R., proprio per il ruolo operativo rivestito e perché presente quotidianamente in azienda, aveva la possibilità di verificare in concreto la carente valutazione dei rischi da parte dei vertici aziendali e l’insufficiente formazione del personale in ordine alla gestione delle situazioni di emergenza.
La Corte territoriale ha anche aggiunto che il F.R., al pari dei coimputati, non poteva ritenersi esente da responsabilità per il fatto di confidare che il capo reparto (cioè colui che gli succedeva nella posizione di garanzia) avrebbe potuto porre rimedio alle omissioni (anche) a lui addebitabili. Tanto affermando, la Corte ha correttamente applicato altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, sent. n. 35827 del 27/06/2013, Zanon ed altri, Rv. 258124): precisamente il principio in base al quale chi sia già in colpa (per avere violato norme precauzionali o avere omesso determinate condotte) e, ciò nonostante, confidi che colui che gli succede nella posizione di garanzia elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, non può invocare l’affidamento, in quanto la seconda condotta non si configura come fatto eccezionale, sopravvenuto, da solo sufficiente a produrre l’evento.
7.3. In definitiva, anche sul punto la motivazione della Corte territoriale è, oltre che del tutto adeguata, coerente con principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità e, in quanto tale, insindacabile nella presente sede processuale.
8. Per tutte le ragioni che precedono, i ricorsi vanno rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 6 dicembre 2016