Cassazione Penale, Sez. 4, 23 giugno 2016, n. 26165

Utilizzo di una motosega a catena anziché della sega circolare come prescritto. Il non aver messo a disposizione le scarpe antitaglio rende colpevole il datore di lavoro.


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 19/05/2016

Fatto

1. Con sentenza n.1493/2014 del 29/10/2014, la Corte di Appello di Trieste confermava, nei confronti di N.G., la sentenza in data 04/10/2012, del Tribunale di Tolmezzo con la quale l’imputato era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 1 e giorni 15 di reclusione, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, in ordine al delitto di cui all’art. 590, commi 1 e 3, c.p. perché, nella propria qualità di legale rappresentante della società N.G. s.r.l., datore di lavoro di G.R., per colpa, consistita nel non aver messo a disposizione del dipendente gli appositi dispositivi di protezione con caratteristiche antitaglio necessari per l’utilizzo di motoseghe a catena, cagionava a G.R. le seguenti lesioni “ferita lacero contusa dorso mediale piede sinistro con sezione parziale del muscolo abduttore dell’alluce e erosione superficiale del primo osso cuneiforme” guarite in 101 giorni. In particolare il G.R., impegnato nei lavori di sistemazione della strada comunale per le frazioni di Cabia e Rivalpo, dovendo effettuare il taglio di una tavola delle dimensioni di circa 2 metri di lunghezza, 7-8 cm di larghezza e 1,7-2,0 cm di spessore, appoggiava a terra la tavola collocandone una estremità sopra un tronco, facendola sporgere per circa 60 cm, quindi tenendola ferma con il piede sinistro iniziava il taglio della porzione di tavola sporgente dal tronco utilizzando una motosega a catena, anziché la sega circolare come prescritto dal datore di lavoro. Appena iniziato il taglio la tavola iniziava a vibrare a causa della presenza di un nodo legnoso, il G.R. imprimeva una maggiore forza per completare il taglio, facendo uscire la motosega dal solco del primo taglio già effettuato, motosega che andava a urtare il piede sinistro della persona offesa cagionandole le lesioni sopra descritte. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 18, comma 1, lett. d), D.Lgs. 81/2008). In Arta Terme (UD) in data 01/04/2009.
2. Avverso tale sentenza di appello, propone ricorso per cassazione N.G., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all’art.173, comma 1, disp. att. c.p.p.):
I) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all’art. 20 del D.Lgs. 81/2008 e dell’art. 2105 c.c.. Deduce che la p.o. non solo ha operato la scelta più pericolosa e che ben sapeva essere tale, ma ha compiuto tale scelta pur non essendovi tenuto, pur non dovendola fare, dati i lavori che erano programmati, e pur potendo rifiutare la sua prestazione senza esporsi al rischio di pregiudizi disciplinari o di altro genere e tale condotta, nel contesto complessivo, sconfina nel rischio elettivo. Il lavoratore infortunato ha disatteso le più elementari e a lui note regole dell’arte, adottando un procedimento pericoloso e percepito consapevolmente come tale per cui la sua condotta costituisce una serie causale autonoma tale da interrompere il nesso causale fra condotta addebitata ed evento. Inoltre nel caso concreto non vi è la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il sinistro non si sarebbe verificato laddove G.R. avesse avuto a disposizione le scarpe antitaglio.

Diritto

3. Il ricorso è infondato e merita il rigetto.
4. Giova rammentare che costituisce orientamento interpretativo acquisito di questa Suprema Corte che il rischio elettivo, quale limite alla responsabilità del datore di lavoro nella causazione degli infortuni sul lavoro, è ravvisabile, per richiamare una definizione sintetica ricorrente, solo in presenza di un comportamento abnorme, volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento secondo l’apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito. Per il resto, si deve confermare che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro e responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore ad un eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità solo quando presenti, per come si è detto, i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr. Sez. Lavoro, Sent. n. 21113 del 2 ottobre 2009; Cassazione penale sez. 4, n. 46820 del 25/06/2014).
5. Circa la rilevanza delle eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, occorre, ancora, osservare che, nell’ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l’uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il “garante è il soggetto che gestisce il rischio” e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l’illecito, qualora l’evento si sia prodotto nell’ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell’ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il D.Lgs. n. 81 del 2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale.
6. Nel caso che occupa l’imputato (quale datore di lavoro) era il gestore del rischio e l’evento si è verificato nell’alveo della sua sfera gestoria; la eventuale ed ipotetica condotta abnorme del lavoratore non può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento poiché essa non si è collocata al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. In altri termini la complessiva condotta del lavoratore (ben descritta nell’imputazione) non fu eccentrica rispetto al rischio lavorativo che il garante (il ricorrente) era chiamato a governare (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Rv. 261108).
6.1. Nulla, poi, è emerso che possa lasciar presumere che il rispetto delle norme cautelari violate non fosse concretamente esigibile dal ricorrente, nelle condizioni date. Il N.G., invero, quale datore di lavoro, era destinatario ex lege dei precetti antinfortunistici. Ciò ha consentito ai giudici del merito di raggiungere la tranquillante certezza, in ordine alla responsabilità del ricorrente (quale titolare della posizione di garanzia), che promana dalla completa, coerente, logica e convincente motivazione.
6.2. Neppure censurabile in Cassazione è il ragionamento di merito sulla base del quale gli elementi di prova forniti dalla difesa siano stati ritenuti, anche implicitamente, non decisivi (cfr. sez. 4, n. 32290 del 04/07/2006).
7. Nel caso di specie, G.R. ha patito l’infortunio mentre svolgeva la sua ordinaria attività di lavoro utilizzando mezzi di lavoro messigli a disposizione dall’azienda. Pertanto la circostanza che la persona offesa, presa dalla routine del lavoro e da un imprudente eccesso di sicurezza, abbia utilizzato la motosega a catena, non costituisce comportamento abnorme idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento, condotta connotata da colpa, tenuto conto che le cautele omesse (l’uso delle scarpe antitaglio) era proprio preordinato ad evitare il rischio specifico che poi concretamente si è materializzato nell’infortunio in danno del G.R..
7.1. La Corte territoriale, dopo aver richiamato la motivazione del primo giudice (versandosi in ipotesi di “doppia conforme”) e dopo aver riconosciuto l’esperienza del dipendente G.R. e il fatto che il taglio di tavole di quello spessore avrebbe dovuto essere effettuato con la sega circolare fissa o con la sega a mano (da ciò traendo gli elementi che hanno fondato il riconoscimento della sussistenza delle circostanze attenuanti generiche con il conseguente giudizio di equivalenza alle contestate aggravanti), ha, incensurabilmente sottolineato che “la motosega a catena era in dotazione, per cui ben poteva rientrare nella valutazione nella prassi stessa dei dipendenti il fatto di utilizzarla per comodità e per velocizzare il lavoro, condotta dunque niente affatto eccezionale né assolutamente imprevedibile … la dotazione ordinaria della motosega e la prevedibilità del suo uso avrebbero dunque dovuto essere accompagnate dalla dotazione di apposite calzature antitaglio che invece il datore di lavoro non aveva fornito e che hanno reso concreto e attuale il rischio di lesioni, in effetti verificatesi”. A nulla vale l’apodittica (poiché meramente ipotetica ed indimostrata) affermazione difensiva circa l’inutilità di tale presidio antinfortunistico.
8. Conclusivamente, una volta accertata la legittimità e la coerenza logica della sentenza impugnata, deve ritenersi che il ricorso, nel rappresentare l’inaffidabilità degli elementi posti a base della decisione di merito, pone solo questioni che esorbitano dal limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dai giudicanti e nell’offerta di una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio (sez. 6, n. 13170 del 06/03/2012). Questioni, queste, che sfuggono al sindacato di legittimità.
9. Dalle considerazioni che precedono discende, pertanto, il rigetto del ricorso cui segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19/05/2016

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