Cassazione Penale, Sez. 4, 23 ottobre 2008, n. 39888

Formazione dei lavoratori.

Responsabilità del legale rappresentante di una srl per lesione colposa in danno di un dipendente che, nel pulire una macchina per la lavorazione del legno, non utilizzava precauzioni nè attrezzature idonee soprattutto per la mancanza di formazione e di adeguate istruzioni a tal proposito.
La condanna in primo grado viene interamente riformata in appello dove l’imputato viene assolto perchè il fatto non costituisce realto.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia ricorre in Cassazione: la Sez. IV, accoglie il ricorso e annulla con rinvio la sentenza di appello.
La Corte di Cassazione afferma che “anche una diligente formazione ed informazione (che nella specie comunque non si ravvisano) non dispensa il datore di lavoro dagli obblighi di controllo e di vigilanza affinchè il lavoratore, soprattutto se poco esperto perchè apprendista, non corra il rischio di eventi lesivi.
Le norme fondamentali di riferimento sono, per l’informazione, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21, e, per la formazione, il successivo art. 22.”
Il lavoratore “come da sua stessa ammissione, era stato informato sulla circostanza che la pulizia del macchinario dovesse avvenire dopo avere premuto il pulsante che ferma le frese in movimento.
Tale informazione (tenuto anche conto di quanto espresso nel successivo art. 37), che, se riferita con particolare diligenza, tale da sensibilizzare il dipendente sui rischi dell’operare sul macchinario in movimento, potrebbe essere sufficiente, risulta invece inconsistente, se non accompagnata da una seria formazione sui pericoli dello svolgimento di un’attività lavorativa in difformità del citato criterio di prudenza, e soprattutto in assenza di una seria vigilanza sull’operato del dipendente, come risulta essersi verificato nella specie.”


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RIZZO Aldo – Presidente –
Dott. CAMPANATO Graziana – Consigliere –
Dott. LICARI Carlo – Consigliere –
Dott. VISCONTI Sergio – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO CORTE D’APPELLO di
VENEZIA;
nei confronti di:
1) D.T.A. N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 18/12/2007 CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. VISCONTI SERGIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Bua Francesco che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore avv. Spreafico Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza in data 12.2.2007 il Giudice monocratico del Tribunale di Treviso ha dichiarato D.T.A. colpevole del delitto di lesioni colpose in danno di K.A., fatto verificatosi il (OMISSIS) (art. 590 c.p., commi 2 e 3, in relazione all’art. 583 cod. pen.) e lo ha condannato alla pena di mesi tre di reclusione, oltre statuizioni accessorie.
Il K. era dipendente della Tesse s.r.l., della quale il D. T. era legale rappresentante, e, secondo l’impostazione accusatoria, al momento dell’incidente, stava eseguendo la pulizia della macchina per la lavorazione del legno denominata “scorniciatrice”, senza l’uso di idonee precauzioni ed attrezzature soprattutto per la mancanza di formazione e di adeguate istruzioni sul corretto uso del macchinario, per cui riportava gravi lesioni alla mano sinistra, con indebolimento permanente dell’organo della prensione.
Tali omissioni, configuranti sia la violazione della specifica norma sulla formazione dei lavoratori (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 22) sia quella della norma generale di cui all’art. 2087 cod. civ., venivano ravvisate dal G.M. del Tribunale di Treviso, che approfondiva anche l’argomento della mancanza di vigilanza sull’operato del dipendente, richiamando ampia giurisprudenza di questa Sezione della Corte di Cassazione.
La sentenza di condanna di primo grado si fondava quindi su varie omissioni del datore di lavoro, attinenti alla formazione, alla informazione ed alla vigilanza o controllo del comportamento dei dipendenti. Veniva anche precisato che la condotta distratta del K. non eliminava il dovere del D.T. di adoperare macchinari sicuri o comunque di informare adeguatamente i dipendenti dei pericoli che potevano derivare dall’uso di macchinali, per così dire “a rischio”.
Con sentenza in data 18.12.2007 la Corte di Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto il D.T. dal delitto ascrittogli perchè il fatto non costituisce reato.
La Corte territoriale ha rilevato che gli argomenti sostenuti dal giudice di primo grado per ritenere colpevole l’imputato non potessero essere condivisi.
Per ciò che concerne il primo argomento, e cioè la mancanza di formazione, la Corte territoriale ha ritenuto che essa non era tale da precludere la conoscenza della pericolosità della macchina scorniciatrice alla quale il K. era addetto e delle corrette modalità di uso della stessa.
La Corte di merito, pur dando atto della pericolosità del macchinario, se non correttamente usato, e della sicura assenza della frequentazione da parte del K. di un cd. “corso di formazione istituzionalizzato”, ha rilevato che dalla espletata istruttoria, e anche dalle dichiarazioni della stessa parte offesa, era risultato che il lavoratore si era formato tramite un “apprendimento diretto”, operando, anche al momento dell’infortunio, insieme ad un operaio esperto, e cioè C.U..
Inoltre, lo stesso K. aveva ammesso di conoscere i due comandi di sicurezza, molto semplici, da utilizzare per scongiurare infortuni come quello verificatosi, e cioè l’apertura del cofano per fermare le linee di guida, e cioè le ruote, e soprattutto il pulsante di emergenza, che, se premuto, avrebbe fermato le frese, che avevano causato l’incidente. Infine, sul primo punto, nella sentenza di appello si precisa che il testimone F.A., funzionario del Servizio Prevenzione Igiene Sicurezza Ambienti di Lavoro (S.P.I.S.A.L.), aveva lamentato la mancata partecipazione del lavoratore ad un corso di “formazione specifica”, obbligo a cui avrebbe dovuto ottemperare il datore di lavoro, pur precisando che non esiste una “scuola prevista”.
Il secondo argomento esaminato è l’esistenza di una prassi contraria alle esigenze di sicurezza, che si è ritenuto di escludere essendo la prova basata sulle sole dichiarazioni della parte offesa, senza alcun riscontro, e ritenendosi la non piena attendibilità del testimone per avere serbato rancore nei confronti del D.T., avendo la società da lui amministrata risolto il rapporto di lavoro dopo l’infortunio.
La Corte territoriale ha poi ricostruito la fase degli eventi che ha portato alle lesioni, distinguendo l’attività dell’altro operaio C.U. di rimuovere una scheggia rimasta incastrata nelle linee di guida e per la quale non era necessario fermare anche le frese, e la successiva opera di pulizia da parte del K., che ha approfittato della circostanza che la macchina era aperta, senza arrestare il movimento delle frese. La tesi di una prassi tollerante nell’intervenire in tale modo imprudente non è stata dimostrata in alcun modo.
Infine, la Corte territoriale ha rilevato che i funzionari dello S.P.I.S.A.L. hanno attestato la conformità della macchina scorniciatrice alle norme di sicurezza.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia ha proposto ricorso per cassazione avverso la succitata sentenza di assoluzione per i seguenti motivi.
Con i primi due motivi di gravame, il P.G. ricorrente ha dedotto l’inosservanza di molteplici norme inerenti alla formazione e all’addestramento specifico dei dipendenti (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21, comma 1, lett. a) e c), art. 22, commi 1 e 2, artt. 34, 37 e 38), nonchè della norma generale di cui all’art. 2087 cod. civ., inerente all’obbligo del datore di lavoro di tutela e di sicurezza nei confronti dell’apprendista, nonchè il vizio di motivazione.
In particolare, il P.G. ha censurato sia la mancata valutazione della normativa antinfortunistica, che l’efficacia di tali valutazioni sull’infortunio in questione.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la violazione di legge e la mancanza di motivazione sulla circostanza che l’infortunato era un apprendista, per cui era applicabile la L. 19 gennaio 1955, n. 25, artt. 11 e 16, nella parte in cui dispongono l’obbligo di frequenza per corsi di insegnamento complementare.
Inoltre, come costantemente ritenuto dal giudice di legittimità, il grado di formazione e di vigilanza sull’operato degli apprendisti deve essere particolarmente elevato per garantire la sicurezza del lavoro, e lo stesso non deve essere adibito ad attività su macchinari particolarmente pericolosi come la scorniciatrice.
Con il quarto motivo di ricorso, il P.G. ha eccepito la violazione dell’art. 2087 cod. civ. e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. f), ed il relativo vizio di motivazione, in quanto il datore di lavoro non solo deve fornire le direttive per evitare incidenti sul lavoro, ma deve anche vigilare che le prescrizioni antinfortunistiche siano osservate, soprattutto in caso di lavoratore inesperto, quale l’apprendista.
Con il quinto motivo di gravame, il ricorrente, dopo avere citato la violazione di numerose norme, ha sostanzialmente ricordato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il nesso causale viene interrotto dal comportamento imprudente del lavoratore solo in presenza di una condotta abnorme e assolutamente imprevedibile.
Con il sesto motivo di impugnazione, il P.G. ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e la manifesta illogicità della motivazione per la ritenuta inattendibilità della testimonianza della parte offesa, non avendo il giudice di appello tenuto conto delle seguenti circostanze: a) il K. non si è neppure costituito parte civile; b) risulta pacifico che le frese erano in movimento, come ritenuto dalla stessa Corte territoriale; c) che le dichiarazioni sono conformi a quelle rilasciate al funzionario dello S.P.I.S.A.L il 30.7.2003, allorchè il K. non era stato ancora licenziato; d) il licenziamento nell’apprendistato può essere disposto senza giusta causa e senza giustificato motivo.
Con il settimo e ottavo motivo di gravame, il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione in relazione all’art. 2087 cod. civ. e al D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 47 e 48, i quali dispongono che è vietata la pulizia dei macchinari in movimento, a meno che non sia richiesto da particolari esigenze tecniche, nel qual caso deve essere fatto uso di mezzi idonei ad evitare ogni pericolo, situazione alla quale il datore di lavoro non ha ottemperato nella fattispecie.
In data 24.9.2008 il difensore del D.T. ha depositato memoria, con la quale ha censurato i motivi di ricorso del P.G. territoriale.
Con riferimento ai primi due motivi la difesa ha censurato la ritenuta non conoscenza da parte del K. del corretto uso dei macchinari, come risulta dalle sue stesse dichiarazioni, dalle quali si evince che egli sapeva che le frese non andavano pulite se tenute in movimento.
In ordine al terzo motivo, la difesa ha assunto che la macchina era perfettamente regolare, come accertato dalla S.P.I.S.A.L., e che il K. non aveva partecipato ai corsi di formazione perchè assente per infortunio alla prima convocazione.
In relazione al quarto motivo, la difesa ha ritenuto adempiuto l’obbligo di vigilanza con la presenza del C., tenendo altresì presente il comportamento imprevedibile e sconsiderato della parte offesa, che ha eseguito una manovra che sapeva vietata.
Per ciò che concerne il quinto motivo, la difesa, con ampia esposizione di ragioni di fatto e di diritto, ha valutato la condotta abnorme ed imprudente del lavoratore come idonea ad interrompere il nesso di causalità – pur ribadendosi comunque l’assenza di responsabilità del datore di lavoro – così ponendosi come causa unica dell’evento lesivo.
Infine, in relazione al sesto, settimo ed ottavo motivo di ricorso la difesa ha posto in evidenza, sulla attendibilità della parte offesa, che la stessa non si è costituita parte civile, in quanto ha promosso azione per il risarcimento dei danni in sede civile, ed ha sottolineato come la Corte di merito abbia correttamente ritenuto che il C. abbia operato sulle frese in movimento per togliere la scheggia, mentre la pulizia andava eseguito con il macchinario fermo.

Diritto

Si osserva, in primo luogo, che la sentenza di appello ha riformato del tutto la sentenza di condanna di primo grado, dichiarando al contrario la assoluzione dell’imputato D.T.A.. Come hanno ritenuto le sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 33748 del 12.7.2005 (riv. 231679), confortando la giurisprudenza prevalente di legittimità (Cass. 9.6.2005 n. 28583; Cass. 20.4.2005 n. 6221; Cass. 27.6.1995 n. 8009; Cass. 16.12.1994 n. 1381; Cass. 9.6.1994 n. 9425; Cass. 9.2.1990 n. 4333), in relazione al vizio previsto dall’art. 606 c.p.p., lett. e), il giudice di appello è libero, nella formazione del suo convincimento, di attribuire alle acquisizioni probatorie il significato ed il peso che egli ritenga giusti e rilevanti ai fini della decisione, con il solo obbligo di spiegare, con motivazione priva di vizi logici o giuridici, le ragioni del suo convincimento, obbligo che, in caso di decisione difforme da quella del giudice di primo grado, impone anche l’adeguata confutazione delle ragioni poste a base della sentenza riformata.
Infatti, l’alternatività della spiegazione di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un iter logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche.
Nel caso di contrasto (come nella specie, totale) tra due decisioni di merito in ordine allo stesso fatto, e cioè tra la sentenza di primo grado e quella di appello, il giudice di secondo grado deve analizzare congruamente ed analiticamente le argomentazioni della sentenza appellata, e spiegare perchè ritenga che le ragioni ivi addotte non siano condivisibili, ed altro sia il ragionamento in direzione della verità.
Il giudice di legittimità, in tale situazione di contrasto da parte dei giudici di merito, ben può esaminare la sentenza di primo grado e valutare se il secondo giudice, nel sostituire il proprio modo di vedere a quello risultante dalla sentenza appellata (sorretta, fino a quel momento, da una presunzione di giustizia), abbia tenuto nel debito conto, sia pure per disattenderle, le argomentazioni esposte da quest’ultima: la valutazione del giudice di secondo grado, soprattutto se la difformità concerne l’affermazione o l’esclusione della responsabilità dell’imputato, non può essere infatti superficiale o arbitraria e tale invece si rivelerebbe qualora disattendesse in modo irragionevole o se omettesse persino di prendere in esame i contrari argomenti del primo giudice.
Nella specie, la sentenza di appello, pur contenendo una motivazione ampia ed analizzando le risultanze probatorie in modo particolareggiato, è motivata in modo manifestamente illogico, e soprattutto contiene interpretazioni di diritto delle norme sulla sicurezza del lavoro del tutto in contrasto con la giurisprudenza costante dalla Corte di Cassazione, come esattamente rilevato dal P.G. ricorrente.
Con i primi quattro motivi di ricorso, nonchè con il settimo e l’ottavo, il P.G. presso la Corte di Appello di Venezia ha censurato sia per violazione di legge che per difetto di motivazione la ritenuta adozione “concreta” (anche se palesemente in difformità delle norme vigenti) degli obblighi di formazione, informazione e vigilanza del lavoratore.
Sostanzialmente nella motivazione della sentenza impugnata è stato ritenuto che il K., pur lavoratore apprendista, non aveva seguito alcun corso teorico, ma si era formato con l’esperienza diretta.
Inoltre, era stato adeguatamente informato delle modalità di esecuzione della pulizia della “scorniciatrice”. Infine, era stato affidato a lavoratore esperto, quale il C., che pertanto vigilava sul suo operato.
Ritiene il Collegio che le questioni non possono essere trattate disgiuntamente, ma vanno valutate, pur negli indispensabili riferimenti al fatto specifico, nel loro complesso, in quanto, come è stato costantemente ritenuto, anche una diligente formazione ed informazione (che nella specie comunque non si ravvisano) non dispensa il datore di lavoro dagli obblighi di controllo e di vigilanza affinchè il lavoratore, soprattutto se poco esperto perchè apprendista, non corra il rischio di eventi lesivi.
Le norme fondamentali di riferimento sono, per l’informazione, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21, e, per la formazione, il successivo art. 22.
La prima norma dispone, nella prima parte che “il datore di lavoro provvede affinchè ciascun lavoratore riceva un’adeguata informazione su: a) i rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività dell’impresa in generale; b) i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia; c) i rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia”.
Nella specie, dalla sentenza impugnata risulta che il K., come da sua stessa ammissione, era stato informato sulla circostanza che la pulizia del macchinario dovesse avvenire dopo avere premuto il pulsante che ferma le frese in movimento.
Tale informazione (tenuto anche conto di quanto espresso nel successivo art. 37), che, se riferita con particolare diligenza, tale da sensibilizzare il dipendente sui rischi dell’operare sul macchinario in movimento, potrebbe essere sufficiente, risulta invece inconsistente, se non accompagnata da una seria formazione sui pericoli dello svolgimento di un’attività lavorativa in difformità del citato criterio di prudenza, e soprattutto in assenza di una seria vigilanza sull’operato del dipendente, come risulta essersi verificato nella specie.
Infatti, il D.Lgs. n. 626 del 1994, successivo art. 22 dispone che “il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, assicurano che ciascun lavoratore, ivi compresi i lavoratori di cui all’art. 1, comma 3, ricevano una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni”.
Il successivo art. 38, stesso Decreto dispone un principio di carattere generale, attinente alla formazione adeguata dell’uso dei macchinari impiegati, e altro specifico riguardante le “conoscenze e responsabilità particolari” di attrezzature che possono causare maggiori rischi, anche a terze persone,, e in ordine alle quali il datore di lavoro deve curare che i lavoratori ricevano un addestramento adeguato e specifico.
Nella specie, è pacifico che il K., pour lavorando su macchinari pericolosi, tali da potere procurare grave danno alle persone, non ha ricevuto nessuna formazione, e non è certamente argomento convincente quello sostenuto nella sentenza impugnata, secondo il quale non esistevano “corsi specializzati”, in quanto, come esattamente rilevato dal teste F., funzionario dello S.P.I.S.A.L., ciò non impediva al datore di lavoro di procedere ad “una formazione specifica per macchine particolarmente pericolose”, come impone non solo la specifica norma sulla sicurezza, ma anche la norma generale di cui all’art. 2087 cod. civ., espressamente richiamata nel capo di imputazione.
Ma, l’argomento poi determinante in ordine al quale la sentenza impugnata fornisce una risposta del tutto illogica è la riduzione, per non dire l’annientamento, del dovere di vigilanza a carico del datore di lavoro nei confronti del dipendente che lavora su macchine pericolose.
Ammesso che vi sia stata informazione, e comunque essendo palese che non vi è mai stata formazione del lavoratore in relazione alla normativa antinfortunistica, ciò che appare essere mancato del tutto è il controllo sull’osservanza da parte del lavoratore delle norme antinfortunistiche. Nella sentenza impugnata tale questione viene ridotta alla “non provata” esistenza di una prassi inosservante della disciplina antinfortunistica.
La giurisprudenza di legittimità ha condivisibilmente sostenuto che, in tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che siano osservate le disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, nell’esercizio dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Cass. 29.10.2003 n. 49492; Cass. 16.1.2004 n. 18638 riv. 228344; Cass. 12.4.2005 n. 20595 riv.231370; Cass. 16.11.2006 n. 41951 riv. 235540).
E’ infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette.
Tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato dal ricorrente, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 4, che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla norma generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ne consegue che, nella specie, pur potendosi ravvisare una informazione, anche se superficiale, e sussistendo una totale assenza di formazione, e la mancanza di vigilanza, essendo risultata del tutto inadeguata quella operata dal C., che certamente non è valsa ad impedire la condotta imprudente del K., per ragioni che in questa sede non è necessario specificare, occorre una seria revisione dei principi affermati nella sentenza impugnata, che sono in violazione non solo della giurisprudenza di legittimità, ma anche e soprattutto delle norme speciali indicate e di quella generale di cui all’art. 2087 cod. civ..
Il quinto motivo di impugnazione riguarda l’inidoneità della condotta imprudente del dipendente ad interrompere il nesso di causalità ex art. 40 c.p., comma 2, artt. 41 e 42 cod. pen., non potendosi certamente dubitare che al verificarsi dell’evento abbia contribuito anche l’imprudenza del K..
Questa Corte ha costantemente ritenuto che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti o caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive organizzative ricevute (ex plurimis Cass. 22.6.2005 n. 38840; Cass. 25.9.1995 n. 10733).
Nella specie, non solo l’insufficienza della formazione rendeva prevedibile una possibile condotta in violazione delle norme antinfortunistiche, ma il tentativo di procedere ad un’operazione di pulitura in modo inosservante della disciplina antinfortunistica, talvolta anche per mera fretta, avrebbe dovuto sensibilizzare il datore di lavoro ad un maggiore controllo, non potendosi certo ritenere del tutto imprevedibile razione incauta del K..
Il sesto motivo, inerente al giudizio di credibilità delle dichiarazioni della parte offesa è questione di merito, che comunque non appare avere rilievo nella fattispecie, e che è assorbito dalle precedenti valutazioni. Infatti, nella sentenza impugnata, il K. è stato ritenuto non credibile solo per ciò che concerne una prassi di pulire la macchina mentre era in movimento, circostanza che non influisce sul dovere di vigilanza del datore di lavoro, che comunque non ha controllato, o fatto controllare, nell’episodio specifico, l’attenta esecuzione dell’opera di pulitura da parte del K..
Pertanto, per le ragioni esposte, la sentenza impugnata va annullata a norma dell’art. 623 c.p.p., lett. c), e il giudice di rinvio dovrà applicare i principi esposti in questa sentenza, che sono peraltro conformi all’orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La difesa, alla pubblica udienza, ha chiesto che la Corte di Appello esamini – se necessario – i motivi di appello attinenti alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (art. 603 cod. proc. pen.), ed alla determinazione della pena, ritenuti assorbiti dall’accoglimento del principale motivo di appello, e cioè l’assoluzione dell’imputato. E’ evidente che con la decisione di annullamento con rinvio, il giudice di appello dovrà esaminare, in maniera gradata, tutti i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2008.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2008

 

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