Cassazione Penale, Sez. 4, 24 giugno 2016, n. 26476

Responsabilità di un datore di lavoro che non impedisce al lavoratore di salire sul cassone dell’autocarro in presenza di ponteggi slegati che gli rovinano addosso causandone la morte.


Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: PAVICH GIUSEPPE
Data Udienza: 23/03/2016

Fatto

1. Con sentenza in data 27 febbraio 2014, la Corte d’appello di Roma, 1 Sezione penale, confermava le statuizioni penali di cui alla sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Latina il 28 giugno 2010 nei confronti di L.P., revocando le statuizioni civili; tanto in relazione alla condotta a lui ascritta in rubrica (e rubricata come delitto p. e p. dagli artt. 589 comma 1 cod.pen. e  5 e 22 D.Lgs. 626/1994), commessa in Priverno il 22 settembre 2005 e con decesso della vittima il 29 settembre 2005 in Roma.
L’episodio per cui é processo riguarda un infortunio sul lavoro occorso a G.P., dipendente della ditta P. Uso (di cui l’imputato era amministratore): secondo l’impianto accusatorio recepito nella pronunzia impugnata, il G.P., alla presenza del L.P., saliva sul cassone dell’autocarro condotto dal fratello (A.P.), sul quale erano sistemati alcuni ponteggi slegati, quando il conducente dell’autocarro effettuava una manovra di retromarcia; i ponteggi caricati sul cassone rovinavano addosso a G.P., il quale era privo della necessaria informazione sui rischi connessi alla manovra, nonché dei necessari mezzi di protezione individuale. Le successive, gravi lesioni riportate dal G.P. ne cagionavano la morte alcuni giorni dopo.
Al L.P., nella qualità suddetta, é contestato di avere consentito al G.P. di salire sul cassone dell’autocarro nelle suddette condizioni, essendo stato accertato che l’episodio si verificava in sua presenza (la dinamica dell’incidente é stata riferita dai testimoni escussi nel dibattimento di primo grado in termini definiti come sostanzialmente univoci dalla Corte di merito.
2. Avverso la prefata sentenza ricorre il L.P. per il tramite del suo difensore di fiducia. Il ricorso é articolato in quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia inosservanza di norme processuali in riferimento agli artt. 83 e 649 cod.proc.pen.: la doglianza si riferisce alla veste processuale del L.P., il quale, nel corso del processo, ha rivestito la duplice qualità di imputato e di responsabile civile rispetto al coimputato A.P., conducente dell’autocarro, e fino al momento della definizione del procedimento di primo grado a carico di quest’ultimo; deduce il ricorrente che ciò contrasta sia con la netta distinzione tracciata dal codice fra le posizioni dell’imputato e del responsabile civile, sia con lo stesso tenore letterale dell’art. 83 cod.proc.pen., che consente la citazione dell’imputato come responsabile civile per il fatto dei coimputati solo allorquando egli venga prosciolto o sia pronunciata nei suoi confronti sentenza di non luogo a procedere. Né rileva la formale distinzione dei due procedimenti (l’uno a carico di A.P., l’altro a carico del L.P.), essendo entrambi derivati dalla stessa notizia di reato; il ricorrente evidenzia il dato della definitiva condanna del G.P. e, quale responsabile civile, dello stesso L.P. per dedurne l’incompatibilità fra detta qualità e quella, odierna, di imputato in relazione allo stesso episodio, atteso che una nuova condanna del L.P. per lo stesso fatto, stavolta in qualità di imputato, costituirebbe una fattispecie di ne bis in idem.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 40 e 41, cod.pen., nonché vizio di motivazione, con riferimento alle diverse condotte cui si attribuisce rilevanza causale sul decesso di G.P., ossia la violazione delle norme sulla circolazione stradale da parte di A.P., e quella delle norme di prevenzione degli infortuni da parte del L.P.. In particolare il ricorrente evidenzia che non viene chiarito se le due condotte suddette siano contestate a titolo di cooperazione colposa, o come concorso di condotte colpose indipendenti, il che integrerebbe una violazione del principio di corrispondenza fra accusa e sentenza.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione di legge in riferimento agli artt. 5 e 22 D.Lgs. 626/1994, nonché vizio di motivazione, con riguardo al fatto che il richiamo alle suddette norme (l’una riguardante gli obblighi dei lavoratori, l’altra riguardante i doveri datoriali di formazione) é contraddittorio, giacché l’una disposizione esclude l’altra; sul corrispondente motivo d’appello, lamenta il ricorrente, la Corte territoriale non ha in alcun modo fornito risposta. Inoltre lo stesso fatto che, nell’impugnata sentenza, si affermi che l’evento morte non si sarebbe verificato se fossero state adottate le cautele e impartite le disposizioni di cui al documento di analisi dei rischi sta a significare che in realtà il L.P. aveva ottemperato agli obblighi previsti a suo carico dall’art. 22 del D.Lgs. 626/1994. Ed ancora, l’affermazione di penale responsabilità a carico del L.P., da parte della Corte territoriale, si é discostata dalla stessa imputazione, avendo la sentenza impugnata escluso che fosse la mera presenza dell’imputato a integrare la sua responsabilità, ma che invece quest’ultima derivasse dall’evidente mancanza di formazione dei suoi dipendenti in merito ai rischi dell’attività compiuta; ciò, deduce il ricorrente, é frutto dell’erronea valutazione dei piani operativi di sicurezza prodotti in atti, dai quali deriva al contrario la specifica formazione del personale anche con riferimento alla movimentazione dei carichi. Anche su questo punto, lamenta il ricorrente, la Corte di merito ha omesso di motivare, pur a fronte delle specifiche doglianze difensive sul punto.
2.4. Con il quarto e ultimo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 40 e 41 cod.pen.: deduce il ricorrente che all’origine dell’incidente non vi fu la presenza del G.P. sull’autocarro nel momento in cui il fratello A.P. iniziava a eseguire la manovra in retromarcia, ma era in corso un’attività di scarico dei ponteggi, nella quale era impegnato il G.P. (per questo i ponteggi erano stati slegati) e solo per un evento accidentale il fratello azionò la marcia indietro. Ciò sarebbe confermato, secondo l’esponente, dalle dichiarazioni del teste M. (la trascrizione é riportata in allegato al ricorso); dunque la presenza del L.P. rispetto al comportamento imprevedibile del conducente dell’autocarro, A.P., non ha fornito alcun apporto causale all’evento.

Diritto

1. Il primo motivo di ricorso é infondato.
La doglianza, per come é dato comprendere dall’articolata argomentazione posta a base della stessa, deve ritenersi incentrata sul fatto che il L.P. ha già riportato condanna definitiva quale responsabile civile in relazione al procedimento nei confronti di A.P., a sua volta condannato in relazione alla sua condotta alla guida dell’autocarro.
In merito, a contrario, deve constatarsi che é corretta l’osservazione formulata dalla Corte di merito in ordine sia alla diversa qualità ricoperta dal L.P. nei due distinti procedimenti (nell’uno, quella di responsabile civile a fronte della condotta ascritta al A.P.; nell’altro, derivato dal primo, quella di imputato per responsabilità proprie di carattere omissivo), sia alla diversità dei profili di colpa (il G.P. – con il L.P. quale responsabile civile – rispondeva per la violazione di norme sulla guida degli automezzi, mentre il L.P. risponde quale imputato in riferimento alla violazione di norme prevenzionistiche).
Ciò che appare dirimente é, peraltro, che neppure ricorre nella fattispecie la nozione di identità del fatto, rilevante ai fini di cui all’art. 649 cod.proc.pen.: tale nozione sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, Sentenza n. 34655 del 28/06/2005, Donati e altro, Rv. 231799; più di recente Sez. 5, n. 52215 del 30/10/2014, Carbognani, Rv. 261364).
Nel caso di specie, diversa é la condotta ascritta al L.P. nei due distinti procedimenti, e diverso é anche il nesso causale che collega la condotta all’evento mortale: nel primo dei due procedimenti, l’odierno ricorrente rispondeva, quale responsabile civile (e dunque – é bene evidenziare – ai soli fini risarcitori, e non sanzionatori), di una condotta imprudente alla guida dell’autocarro da parte del dipendente A.P.; nel secondo, ossia nel presente giudizio, egli risponde per avere consentito a G.P. di salire sull’autocarro senza fornirgli né la formazione necessaria a fini prevenzionistici per operazioni del tipo di quella in corso di svolgimento, né la dotazione di mezzi di protezione all’uopo necessari. Diverso, conseguentemente, é anche l’apporto causale delle due distinte condotte rispetto al medesimo evento.
Perciò, sia in relazione alla diversa qualità ricoperta dal L.P. (dalla quale, si ribadisce, é scaturita nel primo giudizio una condanna a soli fini risarcitori e non sanzionatori), sia in relazione alla non identità del fatto oggetto dei due distinti processi, la doglianza é priva di fondamento. Né é, del resto, conferente il richiamo dell’esponente a Sez. 5, n. 6700 del 08/02/2006, Cravotto, Rv. 234005, atteso che nella specie la questione non attiene al difetto di legitimatio ad causam (e quindi all’impossibilità della chiamata in causa) del responsabile civile che abbia un proprio titolo diretto di responsabilità, distinto da quello dell’Imputato; ma riguarda la possibilità che il responsabile civile venga chiamato a rispondere quale imputato, a diverso titolo (e per ragioni distinte in punto di condotta e nesso causale), dello stesso evento. Se ciò non fosse consentito, ossia se si ritenesse preclusiva la precedente pronuncia di condanna del L.P. quale responsabile civile per fatto altrui, si determinerebbe un vulnus al principio di obbligatorietà dell’azione penale in relazione al fatto (diverso) a lui attribuito.
2. Il secondo motivo di ricorso é parimenti infondato.
Par di comprendere, dall’incedere argomentativo del ricorrente, che la doglianza attenga ai dubbi circa la qualificabilità delle distinte condotte causalmente rilevanti dell’evento mortale come cooperazione colposa o come concorso colposo di cause indipendenti, nonché circa la diversità di accertamenti che le due distinte fattispecie implicherebbero: tant’é che vi sarebbe violazione del principio di corrispondenza fra accusa e sentenza nel caso in cui, a fronte della contestazione dell’una fattispecie, si condannasse per l’altra.
Sul punto, devesi constatare che proprio una delle pronunzie richiamate dall’esponente afferma l’esatto contrario, ossia che non costituisce violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a titolo monosoggettivo per delitto colposo, a fronte dell’imputazione a titolo di cooperazione colposa, purché venga comunque riconosciuta la rilevanza causale della condotta colposa dell’imputato, come delineata nell’imputazione (Sez. 4, n. 14505 del 14/01/2010, Bonenti, Rv. 247125); il principio così affermato, che si ritiene qui di condividere e di considerare affatto pertinente al caso di specie, si fonda sulla considerazione che la diversa ricostruzione del fatto sotto il profilo della natura monosoggettiva o plurisoggettiva (o di quello, ulteriore, della reciproca conoscenza delle condotte da parte dei due soggetti che cagionarono l’evento a titolo diverso) non lede il principio di correlazione, in quanto ciò non muta l’essenza dell’accusa: invero, nella specie, il rilievo causale della condotta addebitata al L.P. nel presente procedimento rispetto al decesso di G.P. é ab orìgine stato chiaramente delineato, ed era ben noto alle parti, con conseguente assenza di qualsiasi violazione del diritto di difesa.
A proposito del fatto che la qualificazione della diversa connotazione soggettiva inciderebbe su alcuni specifici accertamenti (relativi al principio di affidamento e all’eventuale sopravvenienza di fattori causali alternativi a valenza esclusiva), tale questione deve ritenersi assorbita da quanto ci si accinge ad esporre in ordine al terzo e al quarto motivo di ricorso.
3. Quanto al terzo motivo, anch’esso si appalesa infondato.
Al di là dell’Improprio richiamo, nell’editto imputativo, all’art. 5 del D.Lgs. 626/1994 (che, a quanto é dato comprendere, era stato richiamato nell’atto d’appello essenzialmente per ricavarne un possibile concorso di colpa della vittima rilevante ai fini civili), il contenuto testuale e descrittivo dell’imputazione é inequivoco e si riferisce al fatto che il L.P. non impedì a G.P. di salire sul cassone dell’autocarro, sul quale erano posizionati ponteggi slegati (e dunque a rischio di caduta, rischio poi concretizzatosi); e ciò fece senza che costui fosse qualificato, informato e protetto dai rischi che correva. Alla luce dell’imputazione in fatto, appare evidente che il richiamo all’art. 5 del D.Lgs. 626/1994 é frutto di un refuso, dovendosi intendere richiamato l’art. 4 comma 5 del suddetto decreto, ciò che spiega la mancanza di un espresso intervento della Corte di merito sulla specifica doglianza, intervento peraltro implicitamente effettuato dalla Corte territoriale nel descrivere compiutamente le ragioni di riferibilità soggettiva dell’accaduto al L.P. sulla base della descrizione degli addebiti recepita nell’imputazione de qua.
Ma, a parte ciò (e tenuto conto della pacifica irrilevanza dell’errore nel richiamare articoli di legge nell’imputazione allorché l’imputato sia in condizioni di difendersi da un addebito descritto in modo completo: ex multis vds. Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258920), la questione sollevata dal ricorrente é del tutto inconferente rispetto all’imputazione: in primo luogo perché la predisposizione del documento di valutazione dei rischi (art. 4, commi 2 e 3, D.Lgs. 626/1994) é altro rispetto al dovere di formazione dei lavoratori (art. 22 dello stesso decreto), sì che non rileva l’accurata predisposizione del D.V.R. qualora non venga poi curato il profilo della formazione dei lavoratori a fini antinfortunistici; in secondo luogo perché correttamente la Corte territoriale, senza con ciò disattendere in alcun modo l’imputazione, ha precisato che, al di là della presenza fisica del L.P. all’evento (che peraltro risulta accertata e che sicuramente ne aggrava la posizione, potendo egli intervenire per ordinare al G.P. di non salire sul cassone, cosa che avrebbe evitato l’evento stesso), é emerso pacificamente che il lavoratore si posizionò sull’autocarro, in presenza di carichi a rischio di caduta, senza alcuna protezione individuale (guanti o casco) e senza aver ricevuto adeguata formazione (elemento che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte di merito valorizza espressamente richiamando le dichiarazioni del teste R. e degli ispettori Omissis).
4. Infine, é infondato anche il quarto e ultimo motivo di ricorso.
La sussistenza del nesso causale deriva, nella sentenza impugnata, da una chiara e precisa ricostruzione in fatto della vicenda: il fatto che fosse in corso di esecuzione, o di imminente esecuzione, un’attività di scarico dei ponteggi non elide il dato fondamentale, ossia quello che il G.P. salì sul cassone dell’autocarro sul quale si trovavano i ponteggi stessi, che erano slegati, senza indossare i mezzi di protezione individuali (oltreché sprovvisto di formazione a fini prevenzionistici per detta operazione), mentre alla guida del veicolo si trovava il fratello, impegnato in una manovra di retromarcia; a poco rileva che, quando G.P. salì sull’autocarro, quest’ultimo fosse o meno già in manovra o se il fratello A.P. avesse o meno manovrato il veicolo in modo repentino (il teste M., richiamato dal ricorrente, sostiene di avere visto poco dell’accaduto, perché era in magazzino, e le sue dichiarazioni circa una manovra improvvisa appaiono alquanto congetturali); ciò che conta é che non doveva essere consentito al G.P. di montare sul pianale dell’autocarro in assenza di protezioni e con carichi a rischio di caduta, per di più con la possibilità che il veicolo si spostasse, essendovi già il conducente alla guida, sollecitando così la caduta dei ponteggi. Ove tale consenso fosse stato negato dal L.P., com’era doveroso, l’evento non si sarebbe verificato.
In tale chiave non ha alcuna rilevanza il richiamo del ricorrente al principio d’affidamento, atteso che nell’occorso il L.P. ben poteva e doveva conoscere non solo la rischiosità intrinseca della salita del dipendente, privo di casco e di guanti oltreché di formazione, su un veicolo sul quale erano posizionati ponteggi non legati; ma, anche, il fatto che lo spostamento del mezzo (ampiamente prevedibile se non previsto o addirittura già in corso, posto che il A.P. si era messo alla guida dello stesso) avrebbe determinato una sollecitazione idonea a provocare la caduta dei ponteggi, come infatti purtroppo avvenne. Di tal che non può farsi questione in ordine alla (certa) prevedibilità del comportamento colposo altrui (nella specie, del A.P.).
5. Da quanto precede consegue che il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 23 marzo 2016.

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