Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 24 giugno 2016, n. 26490

“In materia di infortuni sul lavoro in un cantiere il committente rimane il soggetto obbligato in via principale all’osservanza degli obblighi imposti in materia di sicurezza, D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, ex art. 6, come modificato dal D.Lgs. 19 novembre 1999 n. 528 (cfr. sez. 4, n. 1511 del 28/11/2013, rv. 259086; conf. sez. 3, n. 7209 del 25/01/2007, rv. 235822; sez. 4, n.23090 del 14/03/2008, rv. 240377).”
“Peraltro, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 cit., comma 3 prevede che incombe sul datore di lavoro committente promuovere la cooperazione e il coordinamento e che tale obbligo debba ritenersi escluso soltanto nel caso previsto dall’art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l’obbligo per il datore di lavoro committente per i “rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”). L’esclusione, dunque, è prevista non per le generiche precauzioni, da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma per quelle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale, normalmente assente in chi opera in settori diversi nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine.”


Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 03/05/2016

Fatto

1. Con sentenza n. 9097/14 del 18/12/2014, la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza del GUP del Tribunale di Latina, del 03/02/2011, con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, L.S. era stato condannato alla pena di anni 1 di reclusione dopo essere stato ritenuto colpevole del reato di cui agli artt. 113, 589, commi 1 e 2, c.p., perché in cooperazione con D’U.R. (per il quale si è proceduto separatamente), il L.S., quale amministratore della società “F.Ili L.S. srl” -committente dei lavori di manutenzione del relativo capannone industriale, consistenti nella pulizia del canale di gronda, nella riparazione di alcune porte, nella sistemazione delle lamiere divelte e dei discendenti dell’acqua piovana- e il D’U.R., quale responsabile di una ditta individuale “irregolare”, appaltatore dei suddetti lavori e datore di lavoro del lavoratore irregolare F.V., per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in particolare il L.S., omettendo di incaricare per i suddetti lavori una ditta specializzata provvista di capacità tecnico-professionali adeguate, con impianto organizzativo di prevenzione, mezzi e attrezzature adeguate e lavoratori regolarmente assunti e formati, e comunque di verificare l’idoneità del soggetto affidatario prescelto e di fornire allo stesso soggetto informazioni dettagliate sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro, in particolare sul rischio che la copertura in eternit del capannone poteva cedere sotto il peso degli operai, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività, nonché omettendo di promuovere la cooperazione ed il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indicasse le misure adottate per eliminare eventuali interferenze con la propria attività lavorativa, in violazione dell’art. 7, commi 1 e 3, D.lgs. 626/1994, il D’U.R., omettendo di valutare il rischio di caduta dall’alto e di eliminarlo predisponendo sulla copertura del capannone delle tavole sopra le orditure e lungo i camminamenti o altre precauzioni idonee, omettendo altresì di formare ed informare il lavoratore in relazione al rischio di lavoro in quota, nonché di fornirgli adeguati dispositivi di protezione (rete anticaduta, imbracatura di sicurezza), in violazione degli artt. 4, commi 1, 2, 5, lett. d), 21 e 22 del D.lgs. 626/94, cagionavano la morte del lavoratore irregolare F.V., e ciò in quanto lo stesso F.V., mentre si trovava il giorno 23/01/2008, primo giorno di lavoro, sulla copertura a tetto del summenzionato capannone industriale, con altezza di circa mt. 9.00, costituita da lastre di eternit, peraltro bagnate dalla pioggia, per effettuare il lavoro di pulizia del canale di gronda, precipitava a terra a causa della rottura della copertura che cedeva sotto il suo peso, e successivamente decedeva per le gravissime lesioni riportate il 19 febbraio 2008 presso l’ospedale S. Maria Goretti di Latina.
2. Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione L.S., a mezzo dei propri difensori, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.):
I) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla inosservanza dell’alt. 63 c.p.p. e alla inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte, in assenza del difensore, da F.Y., T.D’U. e D’U.R. nonché per carenza di motivazione in ordine alla concreta sussistenza di indizi di reità a carico di detti soggetti. Deduce che la Corte territoriale è pervenuta ad una dichiarazione di responsabilità penale a carico del L.S. sulla scorta di dichiarazioni inutilizzabili sotto il profilo processuale e non affidabili sotto il profilo sostanziale poiché inquinate ab origine da finalità che addirittura, nel caso del F.Y., acquistano rilievo penale;
II) violazione di legge e vizi motivazionali per inosservanza dell’art. 521 c.p.p. con violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in relazione all’individuazione del soggetto al quale vennero commissionati i lavori. Deduce che nel capo d’imputazione, testualmente si legge: “… D’U.R. e D’U.T., quali amministratori rispettivamente di fatto e di diritto della Capannoni Industriali S.r.l., appaltatori dei suddetti lavori e datori di lavoro del lavoratore irregolare F.V. ….” mentre la sentenza ha operato una modifica sostanziale della condotta tenuta dal ricorrente: i lavori non sarebbero stati commissionati alla Capannoni Industriali S.r.l., bensì al solo D’U.R. non in qualità di amministratore di fatto di detta società, bensì come singolo imprenditore irregolare. Tale l’immutazione del fatto originario contestato e agevolmente evincibile dalla lettura dell’imputazione e l’incertezza (iniziale e finale) sugli esatti termini della contestazione fattuale formulata, a questo punto, nei confronti del L.S. procurata dai pronunciamenti di tutti i Giudicanti intervenuti, consente di fondare la dedotta violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza;
III) vizi motivazionali per carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla individuazione del soggetto cui vennero appaltati i lavori;
IV) violazione di legge e vizi motivazionali per inosservanza degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione al rapporto causale tra le lesioni, la condotta tenuta da F.Y. e D’U.R., ed il decesso di F.V.; vizio previsto dall’art. 606, lett. e), c.p.p. per omessa, contraddittoria ed illogica motivazione in ordine alla Consulenza Tecnica della difesa, relativa alle cause del decesso del Sig. F.V. che prende le mosse da circostanze emerse solo in sede dibattimentale (e dunque sconosciute al momento della celebrazione del processo a carico del L.S. con il rito abbreviato): il tempo trascorso tra l’incidente e la presa in carico della persona offesa da parte dei sanitari e la “manipolazione” compiuta dai Sigg.ri F.Y. e D’U.R. prima che fosse trasportato in Ospedale. Elementi, questi, che, secondo il c.t. della difesa, hanno svolto un ruolo fondamentale nel determinismo dell’aggravamento dello shock traumatico e del grave stato di sofferenza psicofisica da cui il F.V. non si è più ripreso ed è pervenuto a decesso;
V) violazione di legge per erronea applicazione, al caso di specie, dell’art. 7 del D.Lgs. n. 626/1994. Deduce che i giudicanti hanno interpretato erroneamente il disposto di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 626/1994 attribuendo compiti e responsabilità al committente che, in realtà, sono solo dell’appaltatore;
VI) violazione di legge per erronea applicazione, al caso di specie, degli artt. 190 e 192 c.p.p. e 111 Cost.. Deduce che la sentenza di 1° grado, così come la sentenza di Corte d’Appello hanno completamente omesso di valutare qualsiasi prova fornita dalla difesa. Ed infatti, in nessun punto della motivazione della sentenza viene evidenziata, anche solo una delle numerosissime prove fornite dalla difesa, anche solo al fine di confutarla.

Diritto

3. Il ricorso è infondato e se ne impone il rigetto.
4. Va, preliminarmente, osservato che il ricorrente ignora le analitiche ragioni esplicitate dal giudice di appello per rigettare analoghi motivi di gravame e per confermare la responsabilità dell’imputato.
4.1. La Corte territoriale ha, in vero, fornito puntuale spiegazione del ragionamento posto a base della propria sentenza procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto. Va rammentato che le sentenze di primo e secondo grado si compenetrano in un unica motivazione, versandosi in ipotesi di sostanziale c.d. “doppia conforme”.
4.2. Nel caso che occupa, le doglianze già proposte attengono esclusivamente al fatto. Giova, qui, ribadire che, in ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto può dirsi ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni unite penali, per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo e rimanendo preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
4.3. Quanto alla manifesta illogicità della motivazione, è consolidata in giurisprudenza la massima secondo cui la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito propone effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione è compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
4.4. Il ricorso per cassazione deve, infatti, rappresentare censura alla sentenza impugnata, criticandone eventuali vizi in procedendo o in iudicando; esso, quindi, non può consistere in una supina riproposizione delle doglianze espresse con l’appello, ma deve consistere in una critica alle ragioni in fatto o in diritto sulla cui scorta il secondo giudice ha ritenuto di dover disattendere il gravame (sez. 4 n. 44139 del 27/10/2015).
5. Ciò premesso, in replica al motivo sub I) vale rimarcare che il divieto di utilizzazione nei confronti di terzi di dichiarazioni rese da persona che avrebbe dovuto essere sentito in qualità di indagato, non attiene alle dichiarazioni rese da soggetto che mai abbia assunto la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, considerato che, a differenza del P.M., il giudice non può attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, dovendo solo verificare che essa non sia già stata formalmente assunta, sussistendo in tal caso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone (Sez. 5, n. 24300 del 19/03/2015). Nella specie F.Y. non ha mai assunto la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini. E tanto basta per ritenere infondato tale punto del motivo di ricorso (sez. 2, n. 45155 del 22/10/2015).
5.1. Per consolidata giurisprudenza, inoltre, (cfr. sez. 1, n. 35027 del 04/07/2013, Voci, Rv. 257213), le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria sono probatoriamente utilizzabili nel giudizio abbreviato. In proposito -giova ricordare- l’art. 350 c.p.p., comma 7, sancendo la inutilizzabilità (esclusivamente) nel dibattimento delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato, ne consente, invece, la piena e incondizionata utilizzazione nella fase delle indagini preliminari e nel giudizio abbreviato. Nella specie D’U.R. rese dichiarazioni alla polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 350 , comma 7 c.p.p.. Cosicché anche tale punto del motivo sub I) non merita accoglimento.
6. Quanto alle doglianze sub II) attinenti alla lamentata violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza, osserva il Collegio -in adesione a talune considerazioni già argomentate da questa stessa sezione (v. sez. 4, n. 35943/2014)- come nella giurisprudenza di legittimità sia del tutto consolidata un’interpretazione teleologia del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione, ma implica la necessità che il diritto di difesa dell’imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quei soli interventi sull’addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti -e in particolare l’imputato – non abbiano avuto modo di dar vita al contraddittorio, anche solo dialettico. Sia pure a mero titolo di esempio, può citarsi la massima per la quale “ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 c.p.p. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione” (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 – dep. 29/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278).
6.1. Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle richiamate indicazioni giurisprudenziali incorre in talune peculiari difficoltà, derivanti dalla circostanza che la condotta colposa -in specie quella omissiva, massimamente se commissiva mediante omissione – può essere identificata solo attraverso l’integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa. Mentre nei reati dolosi -in specie commissivi – la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l’obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest’ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica). Com’è evidente, l’una e l’altra operazione appaiono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l’agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare.
6.2. Di qui il ricorrente richiamo, da parte della giurisprudenza di legittimità, alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, purché, come nel caso che occupa, sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013 – dep. 20/12/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902).
6.3. L’accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza -nella ricerca di criteri guida che orientino la verifica del rispetto del principio di correlazione- un approccio fondato sulla tipologia dell’Intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l’ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica). Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologia del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l’estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto). La principale implicazione di tale ultimo assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato a esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della “narrazione” prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente.
6.4. In tal senso depone altresì l’indirizzo, fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità, secondo cui, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’Imputazione (Sez. Un., Sentenza n. 36551 del 15/07/2010).
6.5. Nel caso di specie, va sottolineato come la dinamica dell’infortunio non può più essere in discussione, così come fotografate dal giudice del merito risultano le condotte (omissive) dell’imputato.
6.6. Ciò posto non sussiste alcuna rivalutazione o radicale rivisitazione degli elementi di fatto o di spunti normativi del tutto estranei al quadro illuminato dalla contestazione originaria; trattasi, in vero, della emergenza di profili di colpa, concretamente sussistenti e agevolmente ricavabili dagli atti del giudizio e tali da indurre a ritenere pienamente rispettato, nel caso in esame, il principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 c.p.p. (data, in ogni caso, l’assenza di qualunque lesione dei relativi diritti di difesa), con la definitiva attestazione della radicale infondatezza del motivo d’impugnazione sul punto sollevato dal ricorrente (sez. 4, n. 93 del 11/12/2015).
7. Dopo la disamina e le determinazioni assunte ai punti che precedono, appare consequenziale l’infondatezza del motivo sub III).
7.1. Il materiale probatorio utilizzato, correttamente, dai giudici del merito (comprensivo delle dichiarazioni rese dal D’U.R. e dal F.Y.) per addivenire al convincimento (logico) in ordine alla ricostruzione del fatto (tra cui l’individuazione del committente e dell’appaltatore, il contenuto del contratto -verbale- comprensivo anche della pulizia del canale di gronda, le modalità dell’infortunio occorso al F.V. -lavoratore in nero-) ed alla individuazione delle posizioni di garanzia sfugge ad ogni diversa valutazione in questa sede di legittimità.
8. Quanto al motivo sub IV) basterà ribadire che una volta accertata la legittimità e la coerenza logica della sentenza impugnata, deve ritenersi che il ricorso, nel rappresentare l’inaffidabilità degli elementi posti a base della decisione di merito, pone solo questioni che esorbitano dal limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dai giudicanti e nell’offerta di una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio (sez. 6, n. 13170 del 06/03/2012). Questioni, queste, che sfuggono al sindacato di legittimità.
8.1. Nel caso che occupa, in vero, il giudice dell’appello ha ineccepibilmente ritenuto, tra l’altro, che “le considerazioni svolte dal consulente medico-legale di parte sono, nella loro genericità, inidonee a confutare le conclusioni rassegnate dal consulente nominato dal p.m. sul punto specifico, oltre che fondate su una ricostruzione dei fatti meramente ipotetica”.
9. Quanto al motivo sub V) si osserva:
9.1. I giudici del merito (si rammenti che si versa in ipotesi di c.d. “doppia conforme”) hanno incensurabilmente ritenuto che “dalle risultanze in atti emergono plurimi profili di responsabilità del committente, non solo per aver affidato l’incarico dei lavori, mediante un accordo verbale, ad una ditta irregolare, priva di adeguati mezzi e attrezzature (come precisato dal C., anche il trabattello per salire sul tetto era stato realizzato senza osservare le norme di sicurezza) ma anche per aver omesso di fornire le informazioni necessarie sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro, e cioè che la copertura del capannone era costituita da onduline in eternit che potevano cedere sotto il peso eccessivo di una persona, in particolare se rese umide dalla pioggia”.
9.2. Sul punto vale rammentare che l’appalto (specie se conferito a ditta “irregolare” e senza contratto scritto) può solo ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita al committente datore di lavoro, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento (sez. 4, n. 6280 del 11/12/2007). Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del committente permangano obblighi di vigilanza ed intervento sostitutivo. L’appaltante, in vero, risponde come datore di lavoro dell’assolvimento degli obblighi nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore, anche se ciò non fa venir meno gli obblighi e le responsabilità dell’appaltatore stesso (sez. 4, n. 37049 del 03/06/2008).
9.2.1. In proposito, va ricordato, in primis, che, in materia di infortuni sul lavoro in un cantiere il committente rimane il soggetto obbligato in via principale all’osservanza degli obblighi imposti in materia di sicurezza, D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, ex art. 6, come modificato dal D.Lgs. 19 novembre 1999 n. 528 (cfr. sez. 4, n. 1511 del 28/11/2013, rv. 259086; conf. sez. 3, n. 7209 del 25/01/2007, rv. 235822; sez. 4, n. 23090 del 14/03/2008, rv. 240377).
9.2.2. Peraltro, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 cit., comma 3 prevede che incombe sul datore di lavoro committente promuovere la cooperazione e il coordinamento e che tale obbligo debba ritenersi escluso soltanto nel caso previsto dall’art. 7 ricordato, comma 3, u.p. (che esclude l’obbligo per il datore di lavoro committente per i “rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”). L’esclusione, dunque, è prevista non per le generiche precauzioni, da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma per quelle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale, normalmente assente in chi opera in settori diversi nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine. Evidentemente, come più volte sottolineato da questa Corte di legittimità in casi analoghi, non può considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze (cfr, ex plurimis, sez. 4, n. 12348 del 29/01/2008, rv. 239252). È stato più volte affermato che il committente in tali casi è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere del l’infortunio subito dal lavoratore qualora l’evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (cfr. sez. 4, n. 10608 del 04/12/2012, rv. 255282). E, ancora nello specifico del rischio-caduta, è stato recentemente ribadito – e va qui riaffermato- che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine (cfr. sez. 3, n. 12228del 25/02/2015).
9.3, Quanto alla rilevanza delle (insufflate nel ricorso) eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, occorre osservare che, nell’ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l’uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il “garante è il soggetto che gestisce il rischio” e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l’illecito, qualora l’evento si sia prodotto nell’ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell’ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il D.Lgs. n. 81 del 2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale.
9.4. Nel caso che occupa l’imputato (quale committente dei lavori) era un gestore del rischio e l’evento si è verificato nell’alveo della sua sfera gestoria; la eventuale ed ipotetica condotta abnorme del lavoratore non può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento poiché essa non si è collocata al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. In altri termini la complessiva condotta del lavoratore (ben descritta nell’imputazione) non fu eccentrica rispetto al rischio lavorativo che il garante (il ricorrente) era chiamato a governare (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Rv. 261108).
9.5. Nulla, poi, è emerso che possa lasciar presumere che il rispetto delle norme cautelari violate non fosse concretamente esigibile dal ricorrente, nelle condizioni date. Il L.S., invero, quale committente dei lavori (tra cui la pulizia del canale gronda, affidati al D’U.R., imprenditore “irregolare” che si avvaleva di lavoratori “in nero”), era destinatario ex lege dei precetti antinfortunistici. Ciò ha consentito ai giudici del merito di raggiungere la tranquillante certezza, in ordine alla responsabilità del ricorrente (quale titolare della posizione di garanzia), che promana dalla completa, coerente, logica e convincente motivazione.
10. Neppure censurabile in Cassazione è il ragionamento di merito sulla base del quale gli elementi di prova forniti dalla difesa siano stati ritenuti, anche implicitamente, non decisivi. E ciò vale a ritenere infondata anche la censura sub VI) (cfr. sez. 4, n. 32290 del 04/07/2006).
11. S’impone, pertanto, il rigetto del ricorso cui segue, per legge, la condanna alle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 03/05/2016

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