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Cassazione Penale, Sez. 4, 26 febbraio 2016, n. 7903

Precipita a terra da una scala durante i lavori di disarmo di una trave. Responsabilità del preposto.


Fatto

1. La Corte di Appello di Venezia con sentenza pronunciata in data 4.12.2014, confermava la sentenza del Tribunale di Bassano Del Grappa emessa in data 11.1.2013 la quale dichiarava C.G. e R.F., rispettivamente la prima titolare della omonima impresa edile, il secondo quale direttore tecnico di cantiere e capocantiere, responsabili del delitto di omicidio colposo di cui agli art. 589 commi I e II c.p. ai danni del dipendente della ditta S.G. il quale era precipitato a terra da una scala dalla quale stava eseguendo attività di disarmo di un trave posto all’altezza di metri 3.90 dal suolo, senza che fossero stati predisposti ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque altre precauzioni idonee a evitare il pericolo di caduta dall’alto e condannava C.G. alla pena di mesi otto di reclusione con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti sulla contestata circostanza aggravante e R.F. alla pena di anni due di reclusione. La Corte di appello proscioglieva gli imputati dalla contestazione contravvenzionale di cui agli art. 16e 77 DPR 164/56 essendo estinta per intervenuta prescrizione.
2. Avverso la suddetta pronuncia interponeva ricorso per Cassazione la difesa di R.F. proponendo tre motivi di ricorso, di cui il terzo variamente articolato;
2.1 con il primo motivo si denunciava inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento alla disciplina dell’art.589 c.p. e della norma contravvenzionale di cui all’art. 16 DPR 164/1956. Assumeva il ricorrente che la ditta C. operava nel cantiere quale subappaltatrice nell’ambito di cantiere aperto a più ditte, ove la direzione e la responsabilità della sicurezza erano a carico di altri soggetti e con la predisposizione di piano di sicurezza da parte della ditta appaltatrice; che comunque la ditta C. aveva in dotazione presso il luogo di lavoro un ponteggio esterno adeguato per lo svolgimento di opere in sicurezza ad una certa altezza, laddove l’operaio del tutto autonomamente e con comportamento abnorme si era dotato di una scala a pioli di terzi per operare dall’interno pur essendovi il ponteggio fisso;
2.2 con il secondo motivo il ricorrente denunciava la mancata assunzione di prova decisiva a sensi dell’art.606 lett.d) c.p.p., laddove la Corte di appello aveva escluso la necessità di procedere all’assunzione della testimonianza dell’altro operaio della ditta presente sul cantiere D.I. in assenza di specifica richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale e ritenutane la irrilevanza in quanto, anche all’esito dell’esame dell’imputato R.F. non era emersa una ricostruzione alternativa del sinistro; assumeva che la richiesta
deposizione sarebbe stata fondamentale in presenza del contrasto emerso fra due diverse deposizioni in relazione all’attività svolta dal D.I. al momento dell’incidente occorso allo S.G., atteso che il teste S. aveva riferito (de relato) che il D.I. aveva dichiarato all’atto del sopralluogo di essere intento, al momento del sinistro, ad un’attività di disarmo di una porta, mentre il R.F. aveva dichiarato che il D.I. stava cambiandosi in quanto avrebbe dovuto coadiuvare lo S.G. nello effettuare il lavoro con la conseguenza che l’esame del D.I. avrebbe consentito di accertare altresì quale fosse il ruolo del R.F. all’interno del cantiere e cioè se si limitava a compiti esecutivi ovvero se provvedeva a impartire direttive agli operai e, in questo caso, se avesse incaricato lo S.G. di eseguire da solo la lavorazione sul trave o aspettare l’altro operaio per eseguire l’intervento avvalendosi del ponteggio esterno:
2.3 con il terzo motivo il ricorrente deduceva travisamento della testimonianza resa dalla coimputata C.G. e vizio motivazionale su plurime questioni affrontate dalla corte di appello di Venezia sia in relazione al rapporto di causalità, sia alla ricorrenza dell’elemento psicologico del reato; sia infine in ordine al trattamento sanzionatorio. In particolare contestava la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice aveva tratto il convincimento del ruolo rivestito dal R.F. all’Interno del cantiere dalle dichiarazioni rese dalla C., laddove il ricorrente non svolgeva alcuna funzione direttiva ma si limitava a prendere ordini dal geometra della ditta Sc., che lavorava per l’appaltatore per riversarle agli operai della ditta C. senza assumere alcuna veste di responsabilità nel settore antinfortunistico ma in una relazione di piena subordinazione rispetto all’appaltatore e senza alcun margine di scelta; il ricorrente si doleva poi della motivazione del giudice di appello in punto a rapporto di causalità ritenuto tra infortunio e decesso dello S.G., laddove anche alla stregua dell’accertamento autoptico era emerso che lo S.G. presentava uno scompenso coronarico di per sé idoneo a porsi quale esclusivo antecedente causale della morte del paziente verificatasi oltre un anno dopo l’infortunio; assumeva inoltre che il rapporto di causalità tra eventuale condotta del preposto e l’evento risultava altresì esclusa dal fatto del dipendente il quale, con scelta assolutamente imprevedibile e abnorme si era munito di scala non in dotazione della ditta C. per procedere ad una lavorazione che invece sarebbe dovuto avvenire dal ponteggio esterno e in collaborazione con altro operaio e con lo stesso R.F.; si doleva altresì il ricorrente dell’iter logico seguito dalla Corte territoriale per ritenere la ricorrenza dell’elemento soggettivo in capo al R.F., laddove dalle risultanze istruttori era emerso che la ditta C. fosse priva di una figura tecnica idonea a dirigere e coordinare i lavori e che pertanto il R.F. dipendeva totalmente dalle scelte e dagli ordini di diverse figure professionali che avevano la custodia del cantiere e ne organizzavano le opere provvisionali anche con riferimento all’uso del ponteggio lo stesso; sul trattamento sanzionatorio la difesa del R.F. lamentava il vizio della motivazione nella parte in cui non aveva considerato il ruolo effettivamente rivestito dal R.F. e la sua modesta capacità di dettare le scelte della lavorazione, il fatto che i precedenti penali erano risalenti e il suo leale comportamento processuale.

Diritto

1- Invero il primo motivo di impugnazione ha portata trasversale e deduce violazione della legge penale (in particolare delle norme incriminatrici di cui all’imputazione) in relazione a molteplici aspetti (rapporto di causalità, ruolo di garanzia rivestito dal R.F., indipendenza ed esclusività causale del comportamento abnorme del sottoposto) che poi trovano più specifico approfondimento nei successivi motivi di ricorso che attaccano la tenuta logica e la coerenza giuridica della motivazione della corte territoriale; sul punto pertanto è solo il caso di osservare che in ossequio a principi ripetutamente affermati da questa Corte, in punto di vizio motivazionale, compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa vigente, è quello di accertare (oltre che la presenza fisica della motivazione) la coerenza logica delle argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, non già quello di stabilire se la stessa proponga la migliore ricostruzione dei fatti. Neppure il giudice di legittimità è tenuto a condividerne la giustificazione, dovendo invece egli limitarsi a verificare se questa sia coerente con una valutazione di logicità giuridica della fattispecie nell’ambito di una adeguata opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non consente alla Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, essendo estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (ex pluribus: Cass. n. 12496/99, 2.12.03 n. 4842, rv 229369, n. 24201/06); pertanto non può integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più corretta valutazione delle risultanze processuali. È stato affermato, in particolare, che la illogicità della motivazione, censurabile a norma del citato art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata (Cass. SU n. 47289/03 rv 226074).
2. Detti principi sono stati ribaditi anche dopo le modifiche apportate all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) dalla L. n. 46 del 2006, che ha introdotto il riferimento ad “altri atti del processo”, ed ha quindi, ampliato il perimetro d’intervento del giudizio di cassazione, in precedenza circoscritto “al testo del provvedimento impugnato”. La nuova previsione legislativa, invero, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane comunque un giudizio di legittimità, nel senso che il controllo rimesso alla Corte di cassazione sui vizi di motivazione riguarda sempre la tenuta logica e la coerenza strutturale della decisione. Precisazione, quella appena svolta, necessaria, avendo il ricorrente denunciato, con il terzo motivo di ricorso, anche il vizio di travisamento della prova. Così come sembra opportuno precisare che il travisamento, per assumere rilievo nella sede di legittimità, deve, da un lato, immediatamente emergere dall’obiettivo e semplice esame dell’atto, specificamente indicato, dal quale deve trarsi, in maniera certa ed evidente, che il giudice del merito ha travisato una prova acquisita al processo, ovvero ha omesso di considerare circostanze risultanti dagli atti espressamente indicati; dall’altro, esso deve riguardare una prova decisiva, nel senso che l’atto indicato, qualunque ne sia la natura, deve avere un contenuto da solo idoneo a porre in discussione la congruenza logica delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito;
3. Orbene, alla stregua di tali principi, deve prendersi atto del fatto che la sentenza impugnata non presenta alcuno dei vizi dedotti dal ricorrente, atteso che l’articolata valutazione, da parte dei giudici di merito, degli elementi probatori acquisiti, rende ampio conto delle ragioni che hanno indotto gli stessi giudici a ritenere la responsabilità dell’imputato mentre in relazione ai profili di violazione della legge penale, quantomeno in relazione al primo motivo di ricorso lo stesso difetta di qualsiasi elemento di specificità in punto a indicazione della disposizione di legge violata e della specifica statuizione che sarebbe Incorsa in siffatta inosservanza tanto da potersene inferire un preliminare giudizio di inammissibilità;
4. In relazione al secondo motivo di ricorso il ricorrente deduce, a sostegno della mancanza dell’elemento soggettivo del reato, la omessa assunzione dell’esame di un altro dipendente della ditta presente sul lavoro, dalla cui assunzione sarebbero emersi elementi decisivi idonei ad escludere la responsabilità penale del R.F. il quale, In sede di esame dibattimentale aveva riferito che detto operaio, al momento dell’infortunio si stava cambiando e che successivamente avrebbe collaborato con lo S.G. nel disarmo del trave. A questo proposito ha statuito il giudice di legittimità che il vizio della sentenza previsto dall’articolo 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. e consistente nella mancata assunzione di prova decisiva costituisce un “error in procedendo” che si verifica allorché l’omessa assunzione riguardi una prova tale da incidere in modo significativo sul procedimento decisionale seguito dal giudice e da determinare, di conseguenza, una differente valutazione complessiva dei fatti e portare in concreto a una decisione diversa: il che ha luogo quando la prova abbia ad oggetto un elemento di fatto che, inserito nel quadro probatorio, conduca a una diversa ricostruzione della fattispecie concreta così come risultava sulla base delle precedenti acquisizioni, e non quando l’elemento nuovo che si chiede di provare sia costituito da una circostanza già acquisita con certezza di prova al processo (Cass. Sez.VI, 24.6.2003 n.35122; 24.10.2005 n. 14161). Appare evidente che difetta nella specie il carattere di decisività della assunzione della prova in quanto, coerentemente a quanto sostenuto dalla corte di appello, nessuna diversa ricostruzione del sinistro sarebbe stata possibile mediante la escussione dell’altro operaio della ditta C., né il R.F. ha mai rivendicato un diverso atteggiarsi dei fatti che dettero luogo alla caduta dell’operaio S.G., laddove con riferimento alla posizione di garanzia da questo assunta nell’ambito della ditta valgono le considerazioni espresse dalla corte territoriale che hanno formato oggetto di impugnazione attraverso il terzo motivo di ricorso che attacca la coerenza logica della motivazione adottata.
4. In effetti sul ruolo di preposto e sulla funzione di garanzia assunta dal R.F. all’interno della ditta C. il ricorrente contesta la motivazione del giudice di appello anche con riferimento al travisamento della prova rappresentata dall’esame della coimputata C., ma i giudici del merito hanno invero tratto il proprio convincimento da una serie di elementi probatori, la cui avvenuta valutazione in termini di affidabilità delle fonti e di conducenza del dato rappresentato si sottrae alle censure motivazionali denunciate dal ricorrente, avendo in particolare rappresentato la diversa veste rivestita dal R.F. rispetto alla titolarità della ditta assunta dalla moglie di questi, C.G., la quale non aveva né competenze né capacità e conoscenze nel settore edile e che pertanto era il R.F. a seguire i lavori e a tenere i collegamenti con le diverse professionalità della committenza e dell’appaltatore principale e dall’altra a riversare le conoscenze, derivanti da tali relazioni con professionisti agli altri lavoratori, cui esso si associava, desumendo tali circostanze dallo stesso esame degli imputati e pervenendo alla considerazione, del tutto logicamente espressa che il R.F., rivestisse all’interno della ditta edile la funzione di preposto sulla base di un riparto di attribuzioni noto e accettato dalla C. che a tali attività tecniche ed esecutive era del tutto estranea, ma soprattutto sovraintendendo all’attività lavorativa dei dipendenti della ditta e rendendosi garante verso di essi delle direttive ricevute da terzi, quali l’appaltatore e la impresa committente (CfR.F. Cass. Sez.IV, 28.2.2014 n.22246Consol).
In tale modo egli risultava preposto ad una attività che non necessitava di alcuna delega specifica da parte della titolare della impresa – anche in considerazione della poco articolata struttura della stessa- che comprendeva la funzione di garanzia del rispetto delle disposizioni antinfortunistiche laddove In materia di infortuni sul lavoro, l’obbligo di sicurezza imposto nei confronti dei subordinati dal D.Lgs. n.626 del 1994, al datore di lavoro, e alle altre figure ivi istituzionalizzate e, in mancanza, al soggetto preposto alla responsabilità e al controllo della fase lavorativa specifica, consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i suddetti rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza. (Nella fattispecie, relativa alla responsabilità del datore di lavoro che non aveva impedito lo svolgimento di un’attività pericolosa da parte del lavoratore- il quale era uscito dal cestello elevatore per le operazioni di pulizia, privo delle relative imbracature- la Corte ha ravvisato la colpa anche nel non aver vigilato sulla adozione in concreto da parte del lavoratore delle misure di sicurezza per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa vedi Cass. Sez.IV 16.11.2006 n.41997).
5. Del tutto destituita di fondamento è altresi la censura che contesta la sussistenza di rapporto di causalità tra la condotta astrattamente esigibile al R.F. nella qualità anzidetta e l’evento dannoso a fronte di comportamento imprevedibile e abnorme del lavoratore il quale, contrariamente a ogni direttiva della committenza si era dotato di una scala a piolo operando allo smontaggio della trave dall’interno, piuttosto che utilizzare il ponteggio esterno come da direttiva nota all’operaio. La Corte di Appello, con ragionamento logico ugualmente ineccepibile, escludeva che la condotta dell’operaio potesse definirsi come abnorme e come tale idonea, secondo i principi espressi nella giurisprudenza richiamata, a escludere la relazione causale tra la violazione dei sistemi di sicurezza e l’evento lesivo in quanto posta al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni, trattandosi di azione che rientrava pur sempre nelle mansioni affidate all’operaio nell’ambito delle mansioni cui era assegnato.
6. Analogamente privo di fondamento si appalesa il terzo motivo di ricorso nella parte in cui assume il vizio della motivazione in punto ad accertato rapporto di causalità tra l’infortunio e la morte atteso che la corte territoriale ha evidenziato che la causa patologica preesìstente (consistente in lesioni coronariche di tipo cronico), pure rilevata dal medico legale non era da sola sufficiente a determinare l’exitus, ponendosi invero quale causa corrente non dotata di rilevanza eziologica assorbente ed esclusiva, mentre in relazione al sopravvenuto focolaio di broncopolmonite il perito era ad escluderne la rilevanza causale, trattandosi di paziente già monitorato e sottoposto costantemente a terapia antibiotica che sarebbe stata efficace anche per tale patologia, che era emersa solo all’esito dell’autopsia.
7. Quanto al vizio motivazionale sull’elemento soggettivo la Corte di Appello di Venezia dopo avere riconosciuto in capo al R.F. una posizione di garanzia quale preposto della ditta C. alla esecuzione dei lavori dei dipendenti e garante dell’osservanza delle disposizioni antinfortunistiche ha coerentemente concluso che le dimensioni molto modeste della azienda, in uno con la circostanza che la lavorazione che stava eseguendo lo S.G. rientrava nelle opere demandate alla ditta C., faceva carico allo stesso R.F. non solo di vigilare sull’osservanza di esse ma in primo luogo di fornire al lavoratore gli strumenti per operare all’altezza dal suolo richiesta dalla tipologia dell’intervento di disarmo in tutta sicurezza e pertanto sovraintendendo a siffatta lavorazione anche per evitare che le opzioni del lavoratore potessero indirizzarsi verso soluzioni non idonee o pericolose.
8. Infondata sono le censure in punto a determinazione della pena e mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti atteso che la Corte di appello ha fornito adeguata risposta alle istanze del R.F. rappresentando da un lato che quest’ultimo presentava precedenti penali ostativi al beneficio sospensivo, mentre in relazione alle circostanze attenuanti generiche risultava un precedente specifico in materia di violazione di normativa antinfortunistica, così da non consentire una valutazione in termini riduttivi nella determinazione della pena e delle circostanze attenuanti generiche.
9 A fronte di tali argomentazioni sorrette da iter motivazionale privo di lacune o contraddizioni, le censure del ricorrente vanno del tutto disattese e il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 7.1.2016

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