Cassazione Penale, Sez. 4, 26 novembre 2015, n. 46979

… È bene, in ogni caso, ricordare che, in tema di infortuni sul lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l’evento dannoso si verifichi a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore (Sez. 4, n.4917 del 01/12/2009, dep. 2010, Filiasi, Rv. 246643; Sez. 4, n. 13377 del 28/09/1999, Bassi, Rv. 215537); con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo.


Presidente: Brusco
Relatore: Serrao

Fatto

1. La Corte di Appello di Ancona, in data 25/09/2014, ha riformato sul punto relativo al trattamento sanzionatorio, riducendo la pena a mesi otto di reclusione, la pronuncia di condanna emessa il 27/10/2009 dal Tribunale di Urbino nei confronti di B.M. , imputato del reato di cui agli artt. 113, 589 secondo comma, cod. pen. in relazione all’art.2087 cod. civ. per avere, in qualità di datore di lavoro e titolare dell’impresa familiare Edil M.B., cagionato la morte del lavoratore B.G. ponendolo a lavorare o permettendo che lo stesso lavorasse in piedi su una trave di cemento armato posta ad un’altezza di m. 1,47 dal piano del solaio e larga m.0,30, tale da non garantire spostamenti o movimenti agevoli, tanto più che la perdita di equilibrio poteva essere determinata altresì dall’operazione eseguita con le braccia rivolte verso l’alto e quindi omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo che il lavoratore non potesse scivolare o cadere.
2. Ricorre per cassazione B.M. censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.proc.pen. in relazione alla sussistenza di un contratto di subappalto orale tra l’appaltatore e la Edil M.B. – omessa valutazione di una prova decisiva. Il ricorrente deduce che la Corte territoriale ha affermato non esservi prova che il lavoratore deceduto fosse stato chiamato a svolgere l’attività in proprio, omettendo di esaminare la prova documentale e dichiarativa dalla quale era desumibile che l’imputato non fosse a conoscenza delle ragioni per le quali B.G. fosse in cantiere;
b) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod.proc.pen. in relazione ai principi che governano l’individuazione dell’infrazione penalmente rilevante di una regola cautelare. Il ricorrente, premesso che dall’istruttoria dibattimentale è emerso che il lavoratore è caduto a causa di un malore, ritiene che i giudici di merito abbiano erroneamente applicato la regola cautelare prevista dall’art. 16 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 ritenendo che l’altezza minima di due metri dal suolo potesse desumersi con riferimento al punto in cui operavano le braccia del lavoratore;
c) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.proc.pen. in relazione al nesso di causalità tra violazione della prescrizione ed evento morte. Secondo il ricorrente, avendo il giudice di primo grado ritenuto legittimo il sospetto che la caduta non fosse conseguenza di una perdita di equilibrio ma di una perdita di coscienza, la sentenza impugnata risulta viziata laddove ha ritenuto che la predisposizione di un ponteggio avrebbe comunque evitato l’evento, trattandosi di affermazione che non tiene conto del fatto che sul datore non incombesse tale obbligo, tendente ad eliminare il rischio da cadute in quota. Nel ricorso si contesta l’affermazione secondo la quale il datore di lavoro non va esente da responsabilità in caso di caduta conseguente a malore;
d) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.proc.pen. in relazione all’omessa motivazione circa la scelta di non applicare le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, come invece riconosciute al coimputato.

Diritto

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
1.1. Il giudice di primo grado, alla cui motivazione la Corte di Appello ha rinviato, aveva ritenuto accertato che tra l’impresa appaltatrice dell’opera e l’impresa della quale l’imputato era legale rappresentante, fosse intercorso un contratto di subappalto orale. In particolare, nella sentenza era stato affermato che la prova dichiarativa e le dichiarazioni rese dagli stessi imputati avevano dimostrato che F.D. , proprietario del fabbricato, avesse commissionato all’impresa individuale C.M. i lavori edili per la realizzazione del secondo piano della sua casa sita in XXXXX e che C.M. avesse, a sua volta, subappaltato alla Edil M.B. di B.M. la costruzione delle travi in cemento armato. B.G. risultava dipendente da circa cinque anni della Edil M.B. e, si legge nella sentenza, “era stato incaricato e ciò anche su sollecitazione di C.M. di provvedere alla operazione di spicco delle travi, vale a dire alla definizione e alla segnatura dei punti di appoggio. In ciò gli era stato affincato l’operaio Ba.Ro. , dipendente della ditta. T.B., ma per l’occasione prestato alla ditta M.B.”. Irrilevante ai fini del giudizio di responsabilità era, secondo il Tribunale, la mancanza di contratti scritti di appalto e di subappalto, in quanto l’infortunato era stato di fatto incaricato sia dal responsabile della ditta M.B. sia da C.M. di eseguire il lavoro.
1.2. Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale, nell’esaminare il motivo di appello attinente all’asserita prova certa dell’assenza di un rapporto di subappalto tra l’impresa C.M. e la M.B. di B.M. , abbia omesso di considerare le circostanze evidenziate nell’atto di appello ed, in particolare, la prova decisiva costituita dalla documentazione attestante il licenziamento di tutti i lavoratori alcuni mesi prima, mentre l’apparente titolare della Edil M.B. era dipendente a tempo pieno di altra ditta, e dalla testimonianza di B.D. , che aveva riferito di aver saputo dallo stesso C.M. le ragioni della presenza di B.G. in cantiere, chiamato quale esperto carpentiere dallo stesso C. il giorno dell’infortunio.
1.3. Va, in primo luogo, rilevato che il motivo di ricorso in esame difetta di autosufficienza. Sebbene il ricorso faccia richiamo al contenuto della testimonianza di B.D. , il ricorrente non ha tuttavia allegato al ricorso, né indicato, l’atto processuale dal quale emergerebbe la prova documentale, asseritamente decisiva, dell’avvenuto licenziamento di tutti i lavoratori dipendenti della Edil M.B. alcuni mesi prima dell’infortunio.
1.4. Più in generale, con riferimento al vizio di motivazione, alla luce della nuova formulazione dell’art.606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., dettata dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) effettiva, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non manifestamente illogica, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente contraddittoria, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente incompatibile con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione. Il ricorrente, che intenda dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione (Sez. 6, n.10951 del 15/03/2006, Casula, Rv.233708).
1.5. L’impossibilità di conoscere, nel caso concreto, l’atto processuale dal quale emergerebbe la prova certa dell’estraneità dell’imputato all’attività lavorativa svolta dal dipendente dell’impresa della quale B.M. era legale rappresentante si risolve in un limite all’ammissibilità della doglianza, che risulta conseguentemente conformata in termini di mera istanza di rivisitazione, in senso favorevole al ricorrente, delle risultanze probatorie già congruamente valutate nelle fasi di merito. È, in proposito, ripetutamente affermato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione il principio secondo il quale nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non sia tenuto a compiere un’esplicita analisi di tutte le deduzioni delle parti né a fornire espressa spiegazione in merito al valore probatorio di tutte le emergenze istruttorie, essendo necessario e sufficiente che spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dalle quali si dovranno ritenere implicitamente disattese le opposte deduzioni difensive ancorché non apertamente confutate. In altre parole, non rappresenta vizio censurabile l’omesso esame critico di ogni questione sottoposta all’attenzione del giudice di merito qualora dal complessivo contesto argomentativo sia desumibile che alcune questioni siano state implicitamente rigettate o ritenute non decisive, essendo a tal fine sufficiente che la pronuncia enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono ritenuti determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez.2, n.9242 del 8/02/2013, Reggio, Rv. 254988; Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Mulà, Rv. 254107; Sez. 4, n. 34747 del 17/05/2012, Parisi, Rv. 253512; Sez. 4, n. 45126 del 6/11/2008, Ghisellini, Rv. 241907).
2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono infondati in quanto muovono da un’interpretazione della sentenza non coerente con il testo della motivazione.
2.1. È bene sottolineare che la condotta colposa ascritta a B.M. era descritta nel capo d’imputazione, oltre che in termini di colpa generica, anche quale specifica violazione della regola cautelare posta dall’art. 11, comma 7, lett. d) d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, a mente del quale “Quando i lavoratori occupano posti di lavoro all’aperto, questi devono essere strutturati, per quanto tecnicamente possibile, in modo tale che i lavoratori non possano scivolare o cadere”, per avere il datore di lavoro permesso che il B. lavorasse in piedi su una trave di cemento armato posta ad un’altezza di m. 1,47 dal piano del solaio ed avente una larghezza di m. 0,30 omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo tale che il lavoratore non potesse scivolare o cadere. Tale obbligo era stato, quindi, specificato nella sentenza di primo grado in termini di omesso utilizzo di scarpe antiscivolamento e casco protettivo, nonché in termini di utilizzo di un cordolo non munito di alcuna protezione da cadute con una base di appoggio di appena m. 0,30 sulla quale il lavoratore doveva effettuare le operazioni con le braccia alzate.
2.2. La Corte territoriale, in replica a specifico motivo di gravame, ha richiamato il punto della decisione di primo grado in cui si era sostenuto che l’esecuzione dell’opera commissionata al lavoratore infortunato avrebbe dovuto indurre il responsabile a predisporre adeguate opere provvisionali (ponteggi) ai sensi dell’art. 16 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 per evitare il rischio di cadute dall’alto in quanto il lavoratore doveva operare con le braccia alzate ad un’altezza di tre metri. Tale richiamo è stato, tuttavia, operato al solo fine di evidenziare che la normativa richiamata dall’appellante (art. 107 d.lgs. 9 aprile 2008, n.81) era entrata in vigore successivamente all’infortunio. L’erronea interpretazione dell’art. 16 d.P.R. n. 164/56 come norma applicabile alla lavorazione in esame, considerando l’altezza di tre metri alla quale erano le braccia del lavoratore, non ha avuto influenza sul dispositivo e può essere emendata mediante soppressione ai sensi dell’art. 619, comma 1, cod.proc.pen..
2.3. Se è, infatti, vero che la necessità di predisporre un ponteggio nel caso in esame non avrebbe potuto comunque desumersi da una precisa previsione normativa, non essendo applicabile l’art. 16 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 che disciplinava i lavori eseguiti ad un’altezza superiore ai 2 metri, deve sottolinearsi che la censura, seppure suggestiva, trascura gli altri profili di colpa presi in esame dal giudice di merito e richiamati a pag. 3 della sentenza impugnata, ossia l’omessa predisposizione di scarpe antiscivolamento e di una base di appoggio idonea ad evitare perdite di equilibrio. Il giudice di primo grado aveva, peraltro, rimarcato che l’infortunato non portava casco protettivo né abbigliamento da lavoro (scarpe antiscivolamento) e che il cordolo sul quale egli era salito non era munito di alcuna protezione da eventuali cadute, mentre il lavoro da eseguire comportava una situazione di instabilità dell’operatore anche in relazione alla larghezza della base d’appoggio, pari a 30 centimetri. La decisione risulta, dunque, immune da erronea applicazione della normativa antinfortunistica in vigore all’epoca dell’infortunio, non dovendosi sovrapporre l’obbligo di predisposizione di idonei ponteggi per i lavori da eseguire ad un’altezza superiore ai due metri al più generale obbligo, regolarmente indicato nel capo d’imputazione, di strutturare il posto di lavoro in modo da evitare scivolamenti o cadute.
2.4. Tale regola cautelare è, peraltro, rispondente ai generali principi di diligenza e di prudenza, che impongono a chiunque assuma, in qualsiasi momento ed in qualsiasi occasione, una posizione di garanzia rispetto ad un’attività di lavoro, di operare per prevenire ogni prevedibile ed evitabile rischio e per garantire la sicurezza del luogo di lavoro. Invero, entrambe le regole cautelari menzionate (art. 11, comma 7, lett. d) d.P.R. n.547/55 e art. 16 d.P.R. n. 164/56) possono riferirsi a lavori non eseguiti ad altezza d’uomo, bensì ad un’altezza dal suolo – qualunque essa sia – che ne renda più difficile e rischiosa l’esecuzione, tanto da rendere necessario il ricorso a misure capaci di prevenire il rischio di cadute. Il diverso ambito di operatività di tali regole non concerne, pertanto, la sussistenza o meno dell’obbligo di protezione gravante sul datore di lavoro in caso di lavorazioni, ove svolte ad altezza inferiore ai due metri dal suolo, quanto piuttosto il tipo di opere provvisionali e di sistemi di protezione da predisporre in rapporto all’altezza alla quale si svolge la lavorazione.
2.5. L’individuazione della regola cautelare che l’imputato avrebbe dovuto rispettare risulta, peraltro, frutto di un ragionamento coerente anche rispetto all’evento che l’osservanza di tale regola avrebbe dovuto evitare, ossia la caduta del lavoratore. La Corte territoriale ha, in proposito, rimarcato che la morte di B.G. era stata causata da un grave trauma cranico e che non vi fosse prova certa che la caduta fosse conseguenza di un malore piuttosto che della perdita di equilibrio o di scivolamento. Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, non è dunque certo che la caduta del lavoratore sia stata causata da malore. Pleonastica, e comunque inidonea a scardinare la congruità della motivazione, risulta l’affermazione secondo la quale “la predisposizione di misure di protezione (realizzazione di un ponteggio) avrebbe evitato l’evento mortale in caso di caduta a seguito di malore”, fondandosi in ogni caso la decisione sull’assunto che di tale malore non fosse stata fornita prova certa.
2.6. È bene, in ogni caso, ricordare che, in tema di infortuni sul lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l’evento dannoso si verifichi a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore (Sez. 4, n.4917 del 01/12/2009, dep. 2010, Filiasi, Rv. 246643; Sez. 4, n. 13377 del 28/09/1999, Bassi, Rv. 215537); con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo.
3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
3.1. Giova, infatti, sottolineare che la Corte territoriale ha accolto il motivo di appello tendente ad ottenere una riduzione della pena applicata dal giudice di primo grado (pari ad un anno e quattro mesi di reclusione) ed ha determinato in mesi otto di reclusione la sanzione a carico dell’imputato, specificando che la congruità di tale pena era correlata alle circostanze del caso concreto ed alla totale assenza di presidi di prevenzione antinfortunistica.
3.2. In presenza di simile motivazione non è rilevabile alcun vizio di legittimità, posto che la valutazione degli elementi sui quali si fondano la concessione o il diniego delle attenuanti generiche, ovvero il giudizio di comparazione delle circostanze, nonché in generale la determinazione della pena, rientrano nei poteri discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio, se
effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui all’art. 133 cod.pen., è censurabile in Cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico.
3.3. Occorre, inoltre, osservare che una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice nella determinazione della pena si richiede nel caso in cui la sanzione sia determinata in misura prossima al massimo edittale o comunque superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133 cod. pen. di irrogare una pena in misura media o prossima al minimo edittale (Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356; Sez. 2, n. 28852 del 8/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
4. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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