Cassazione Penale, Sez. 4, 26 novembre 2015, n. 47002

Trauma da schiacciamento all’anca destra: omessa previsione nel DVR dei rischi connessi all’operazione di incordatura e mancanza del dispositivo di interblocco.


Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE Relatore: GIANNITI PASQUALE Data Udienza: 12/11/2015

Fatto

1. Il Tribunale di Bergamo, Sezione distaccata di Grumello del Monte, dichiarava G.C. colpevole del reato di lesioni colpose ai danni di P.M. aggravato dalla durata delle lesioni e dall’aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; e, concesse attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, lo condannava alla pena della reclusione per mesi uno oltre al pagamento delle spese processuali. Il tutto con il beneficio della pena sospesa e con il beneficio della non menzione.
Precisamente, all’imputato G.C. era stato contestato il reato di cui all’art. 590, comma 1, comma 2 e comma 3 c.p., in relazione all’art. 4 comma 2 e 35 comma 1 d. lgs. 626/1994, perché, in data 14 maggio 2008 e in Albano S.A., in qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione della P. s.p.a. e nella qualità di datore di lavoro di P.M., aveva causato a quest’ultimo lesioni personali consistite in “trauma da schiacciamento all’anca destra”, dalle quali era derivata allo stesso una malattia giudicata guaribile in oltre 40 giorni. Quanto precede per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, perché non aveva preveduto nel documento di valutazione dei rischi quelli connessi all’operazione di incordatura (con particolare riferimento ai rischi relativi al contatto con gli organi in movimento) e non aveva disposto che la zona relativa all’avvolgitore della linea CAST 1 (presente nel reparto estrusione, sulla quale era avvenuto l’infortunio) fosse dotata di dispositivo di interblocco che escludesse l’avvio accidentale dell’organo ruotante denominato “aspo” quando il cancello della predetta linea risultava aperto. Pertanto, il lavoratore P.M., avendo notato un’anomalia nel funzionamento dell’impianto, mentre era all’interno della zona di sbobinatura della predetta linea Cast 1 per completare l’operazione di incordatura, era stato schiacciato dall’organo ruotante aspo, che si era inspiegabilmente messo in moto alle sue spalle (nonostante i cancelli fossero aperti) procurandosi le lesioni sopra descritte.
2. La Corte di appello di Brescia, con sentenza 28 novembre 2014, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, rideterminava la pena inflitta all’appellante G.C. in euro 300 di multa; confermando nel resto la impugnata sentenza.
Nella sentenza impugnata veniva ricordato quanto premesso dal Giudice di primo grado in vista di una migliore comprensione di quanto successo; e cioè che: a) l’impianto al quale era addetto il lavoratore P.M. produce un velo di plastica (“film” di polietilene) che è utilizzato per realizzare i pannolini dei neonati o degli adulti; b) tale velo, al termine del ciclo produttivo, si avvolge, come un qualsiasi tessuto, intorno ad un tubo di modesto diametro (infilato e sorretto a sua volta da un’asta cilindrica detta “aspo”), formando una bobina; c) a volte capita che il “film” si rompe; d) quando si verifica tale inconveniente la macchina si spegne da sola; e) per riavviare la produzione si stende lungo tutto il percorso del “film” una fettuccia ovvero una corda che passa attraverso i rulli (c.d. procedura di “incorsatura”); f) l’infortunio in esame si verificava mentre la fettuccia veniva sistemata proprio nella parte ultima dell’impianto dove si forma la bobina.
3. Avverso la sentenza emessa dalla Corte territoriale presentava ricorso l’imputato, a mezzo di difensore.
3.1.Il ricorso è affidato a sei motivi
3.2. Con il primo viene denunciata la contradditorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la mancata acquisizione di una prova decisiva.
In particolare, il ricorrente rileva preliminarmente che, prima della sentenza di primo grado, nessuno aveva ipotizzato che causa dell’infortunio fosse il fatto della persona offesa, per la necessità di non interrompere la produzione, e che la stessa, visto l’impossibilità di far intervenire gli addetti alla manutenzione essendo notte, fosse stata costretta ad entrare in una zona pericolosa nonostante si fosse accorta di una anomalia del processo.
Tanto rilevato in via preliminare, il ricorrente osserva di aver chiesto l’acquisizione del registro degli interventi (notturni) del reparto di manutenzione interno all’azienda al fine di dimostrare che il servizio di manutenzione presso la ditta dell’imputato funzionava 24 ore su 24 e che anche durante le ore notturne erano frequenti gli interventi di manutenzione (p. 3, righi 8-12). Acquisizione questa che, se effettuata, avrebbe potuto portare ad un diverso epilogo processuale: invero, il giudice di primo grado – nel rilevare che la persona offesa aveva giustificato il suo accesso nell’impianto, nonostante l’arresto dell’aspo, proprio perché era notte e non era possibile far intervenire gli addetti alla manutenzione – aveva argomentato (in relazione al rischio corso dal lavoratore ed all’insufficienza delle misure adottate per eliminarlo) sulla considerazione che, in mancanza di un servizio di manutenzione nelle ore notturne, il lavoratore era dovuto entrare nella zona segregata dell’impianto nonostante avesse notato un’anomalia.
3.3. Nel secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 42 c.p. in merito alla mancata contestazione ed individuazione dei profili di colpa specifica.
Sul punto il ricorrente rileva che, già nel secondo motivo di appello si era lamentato del fatto che nel capo di imputazione e nella sentenza di primo grado, era stato omesso ogni riferimento a specifici profili di colpa addebitabili al prevenuto. Osserva di essere stato tratto a giudizio (e quindi condannato) sulla base della mancata osservanza degli artt. 4 e 35 del d. lgs. n. 626/1994, che, già al momento della formulazione della imputazione, erano stati abrogati dall’art. 304 del d. lgs. n. 81/2008. Aggiunge che la Corte di appello, nel disattendere l’eccezione difensiva, aveva rilevato che le suddette disposizioni erano state sostanzialmente trasfuse nel decreto legislativo n. 81/2008, senza tuttavia indicare quali fossero le norme cautelari, attualmente vigenti, da lui non osservate. Sottolinea che il macchinario era perfettamente in regola con la normativa europea, essendo risultato dall’espletata attività istruttoria che la linea Casti, sulla quale si era verificato l’infortunio, era certificata CE.
3.4. Nel terzo motivo viene dedotta la violazione di legge per mancata correlazione tra contestazione e sentenza ex art. 521 cpp in relazione ai profili di colpa dedotti nell’imputazione e quelli ritenuti in sentenza.
Sul punto il ricorrente rileva che, come già dedotto in appello, gli erano stati contestati( nel capo di imputazionefesclusivamente due profili di colpa specifica, mentre buona parte della motivazione della sentenza della Corte di appello di Brescia aveva argomentato sulla prevedibilità della condotta del dipendente, causa dell’infortunio; egli, dunque, era stato condannato per colpa generica, e cioè per essere prevedibile il verificarsi dell’evento. La violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, secondo il ricorrente, non può che riverberarsi sulla sentenza impugnata.
3.5. Nel quarto motivo di ricorso viene denunciato il difetto di motivazione in relazione alla pretesa violazione dell’art. 4 del d. lgs. n. 626.
Al riguardo il ricorrente rileva la mancanza di motivazione in punto di sussistenza del profilo di colpa inerente alla presunta valutazione dei rischi connessi all’operazione che il dipendente stava svolgendo. Osserva che nessuno dei passaggi motivazionali faceva cenno alla presenza nel documento della procedura pericolosa e della relativa valutazione del grado di pericolosità che ne aveva fatto l’azienda. Detta omessa motivazione sarebbe ancor più grave in quanto il perito del Tribunale incidentalmente ha affermato che la P. spa aveva trattato come rischio residuo la possibilità che un operatore fosse colpito dal movimento dell’aspo, mentre, secondo il perito, tale pericolo non poteva essere valutato come residuale.
3.6. Nel quinto motivo viene denunciata violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 42 cp in merito alla sussistenza di colpa specifica in presenza di salvaguardia dal rischio mediante istruzioni.
Al riguardo, il ricorrente osserva che la Corte di appello, riprendendo quanto ritenuto dal Tribunale, ha affermato, da un lato, che vi erano precise istruzioni ai dipendenti di non entrare nella zona segregata dalle macchine, qualora si fossero verificate sulle stesse delle anomalie; e, dall’altro, che tale divieto non costituiva una cautela sufficiente a salvaguardare la salute dei dipendenti. Aggiunge che una eventuale modifica all’impianto non avrebbe evitato il sinistro, essendosi mosso l’aspo soltanto dopo che il lavoratore era entrato nella zona di estrusione, circostanza questa che, secondo il ricorrente, permette di escludere che un interblocco all’ingresso della zona segregata avrebbe potuto arrestare il movimento dell’aspo. Deduce ancora il ricorrente che l’abrogato art. 35 del d. lgs. n. 626/1994 non aveva affatto sancito che le norme procedimentali fossero non adatte a salvaguardare la salute dei lavoratori ed aveva la ratio di ridurre al minimo un rischio che per sua natura è ineliminabile. La Corte di appello, nel richiamare le argomentazioni del perito, sarebbe poi caduta in un equivoco: nel caso di specie, non vi sarebbe stata una istruzione di tipo procedimentale a tutela dei lavoratori, ma uno specifico divieto (quello di (néri entrare nel locale fino a che non fosse stata risolta l’anomalia). Il giudice di secondo grado non ha tenuto conto del fatto che – se il lavoratore P.M., essendosi accorto del fatto che l’aspo non era tornato in posizione in modo automatico, non fosse entrato nell’area segregata, così attenendosi al divieto imposto dall’azienda, ma avesse al contrario atteso l’intervento del servizio di manutenzione – l’infortunio non si sarebbe verificato. Anche in presenza dell’interblocco i dipendenti sarebbero stati chiamati ad osservare JJ>wnrol di compiere le operazioni con le porte della zona segregata aperte, per consentire all’accorgimento tecnico di impedire un avvio incidentale dell’aspo. La responsabilità dell’imprenditore, conclude sul punto il ricorso, non può che essere esclusa qualora il comportamento imposto sarebbe stato sufficiente ad evitare l’evento: nel caso di specie, l’imputato aveva fornito un macchinario sicuro e ad norma ed aveva fornito precise istruzioni (divieti) in merito alle aree di rischio residuale non altrimenti eliminabili.
3.7. -Nel sesto motivo viene denunciata la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. (in merito alla ricostruzione del nesso causale).
Al riguardo, il ricorrente osserva che la Corte di appello ha individuato la causa dell’evento dannoso nell’assenza (nella zona segregata dove era posizionato l’avvolgitore) del dispositivo di interblocco (sul cancello di accesso
all’area); ma così operando, la Corte avrebbe trascurato di considerare, da un lato, che l’aspo si era mosso dopo l’ingresso dell’operatore nella zona segregata e non era in movimento al passaggio di quest’ultimo dai cancelli e, dall’altro, il fatto che l’aspo non passava per la zona segregata nella quale entravano i dipendenti, ma vi passava molto al di sopra (precisamente a due metri e dieci centimetri dal suolo). Il ricorrente conclude rilevando che la sentenza impugnata non ha individuato le cause del ritardato movimento dell’aspo e che, non essendosi potuto determinare le suddette cause, non si può neppure affermare che dette cause siano attribuibili ad una condotta colposa dell’imputato.
4. – Il ricorrente, sempre a mezzo del suo difensore di fiducia, in data 28 ottobre 2015 ha presentato memoria nella quale, in via subordinata rispetto alle domande svolte con il ricorso, essendo nelle more entrato in vigore il d. lgs. 16/03/2015, n. 28, ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia perché valuti l’applicazione dell’art. 131 bis cod.pen. Al riguardo ha fatto presente che la causa di non punibilità della tenuità del fatto, introdotta dal suddetto articolo, ha natura sostanziale, con conseguente applicabilità dell’art. 2 comma 4 c.p. e quindi con conseguente applicazione retroattiva della norma. Sottolinea che l’applicabilità dell’istituto può essere dedotta per la prima volta in Cassazione ogni qualvolta non sia stato possibile proporla nel giudizio di appello, come per l’appunto è avvenuto nel caso di specie; ai fini dell’applicazione nel caso di specie dell’istituto, ha osservato che i limiti edittali previsti dall’art. 590 cp rientrano nella previsione di cui all’art. 131 bis e che, nel caso di specie, ricorrono anche gli altri due presupposti enunciati dalla norma: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. Sotto il primo profilo ha osservato che il danno patito dalla persona offesa è consistito in un trauma da schiacciamento che, seppure ha causato un’astensione dall’attività lavorativa di poco più di 40 gironi, non ha tuttavia avuto alcuna conseguenza invalidante sul signor P.M., che ha ripreso regolarmente la propria attività lavorativa. Peraltro nella verificazione dell’infortunio entrambi i giudici di merito hanno riscontrato un rilevante concorso colposo della persona offesa, tanto che è stata irrogata sanzione prossima al minimo. Sotto l’ulteriore profilo della non abitualità della condotta, viene rilevato che il G.C., nonostante non sia più giovanissimo e nonostante che da decenni porti avanti l’impresa fondata dal padre, è soggetto incensurato. D’altronde dalla espletata attività dibattimentale sarebbe emerso che i macchinari interessati erano tutti in regola con la normativa europea di riferimento e che la P. spa era in regola con tutti gli adempimenti in materia.
La ritenuta astratta applicabilità nel caso di specie della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cp dovrebbe comportare l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia.

Diritto

1. Il ricorso non è fondato e, pertanto, non può essere accolto.
2. Innanzitutto non sussistono i vizi motivazionali, denunciati al quinto ed al sesto motivo di ricorso.
2.1. Giova rilevare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, tra le tante, Sez. 3, sent. n. 4115 del 27.11.1995, 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
2.2. Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
2.3. Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non potendo il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
2.4. Precisato nei termini che precedono l’orizzonte dello scrutinio di legittimità, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice; e che il ricorrente invoca, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, proprio con riguardo alle inferenze che i giudici di merito hanno tratto dagli accertati elementi di fatto, ai fini della affermazione della penale responsabilità.
2.5. Invero, già nella motivazione della sentenza del Giudice di merito di primo grado (motivazione che la Corte territoriale ha inglobato nella propria), dopo una preliminare descrizione dell’impianto e del contesto nel quale si è verificato l’infortunio e dopo una articolata esposizione delle emergenze processuali, è stato ritenuto prevedibile il fatto che nel turno di notte si potesse arrestare l’aspo (le cui anomalie si erano più volte verificate in passato) e si potessero verificare approssimazioni nella gestione del macchinario, con la conseguenza che già prima dell’infortunio si sarebbe dovuto rendere sicuro l’accesso all’interno dell’impianto nella zona posta in prossimità dell’aspo con un sensore che bloccasse l’aspo a porte aperte (come peraltro fu poi effettuato subito dopo l’infortunio): la presenza di tre pulsanti di arresto di emergenza dell’aspo posizionati all’interno del macchinario e l’istruzione di accedere nell’impianto con l’aspo non nella posizione di lavoro, osservava il Giudice di primo grado, davano “la misura della pericolosità nel contesto dell’avviamento accidentale dell’aspo”.
Nella sentenza del Giudice di primo grado è stata presa in esame la possibilità che l’imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, non fosse stato informato (prima dell’infortunio) della non regolare corsa dell’aspo, ed è stato sul punto rilevato che il problema dell’aspo che si fermava era così rilevante da indurre il caporeparto a dare ai dipendenti la disposizione di non entrare nell’impianto con l’aspo fermo; ciò non di meno il capo reparto non aveva riferito al responsabile della sicurezza per essere supportato nell’iniziativa e per avere lumi su soluzioni differenti e più definitive, anche al fine di deresponsabilizzarsi. Ed è stato conclusivamente ritenuto che l’imputato colpevolmente non aveva “dato disposizioni in merito ai dipendenti affinché lo rendessero edotto tempestivamente di inconvenienti che potevano avere ripercussioni sui suoi interventi nel campo della sicurezza”.
2.6.Il Giudice di secondo grado – dopo aver ripercorso i motivi di appello ed esaminata la versione secondo la quale la responsabilità dell’infortunio era da attribuire esclusivamente al comportamento tenuto dall’infortunato (che non solo aveva violato le istruzioni impartitegli, ma aveva tenuto una condotta insensata e imprevedibile), mentre nulla sarebbe imputabile al datore di lavoro, (trattandosi di evento non prevedibile e non evitabile) – ha confermato il giudizio di responsabilità dell’imputato.
La Corte territoriale, invero, ha integrato la motivazione del giudice di primo grado in punto di colpa specifica, argomentando sugli esiti della perizia svolta in dibattimento e in particolare in punto di:
-assenza di un dispositivo di interblocco sul cancello di accesso all’area segregata dove era posizionato l’avvolgitore (dispositivo successivamente installato a seguito di prescrizioni dell’ASL);
-conoscenza in azienda del fatto che l’aspo funzionava male;
-prevedibilità del pericolo che si verificava ogniqualvolta si procedeva alla operazione di incorsatura;
-non rimediabilità di detto pericolo mediante la semplice raccomandazione di non entrare nell’area segregata (alla quale occorreva accedere per compiere la manovra di incorsatura);
-prevedibilità della possibilità che gli stessi operatori ovviassero direttamente (e quindi senza l’intervento del personale di manutenzione) al malfunzionamento dell’aspo, trattandosi di operazione semplice.
Si tratta di profilo di colpa in relazione al quale è stata ritenuta la responsabilità dell’imputato e rispetto al quale quest’ultimo ha avuto piena facoltà di difesa, come emerge dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado (oltre che dal complesso delle argomentazioni svolte nei motivi di ricorso).
2.7. La Corte territoriale (così confermando la valutazione del giudice di primo grado che, anche sulla base di tale elemento, ha concesso le attenuanti generiche) ha ritenuto causalmente concorrente (ma non anomala, imprevista o imprevedibile) la condotta della persona offesa che, errando, ha provveduto alle normali operazioni di incorsatura nonostante il malfunzionamento dell’aspo; come pure ha ritenuto prevedibile (e non anomala) la posizione assunta dal P.M. nel procedere all’incorsatura; per poi passare ad indicare (pp. 14 e 15) le ragioni per le quali non ha ritenuto convincenti le osservazioni del consulente di parte e per le quali ha ritenuto irrilevante la circostanza che la ASL non aveva richiesto il sequestro dell’impianto (il tecnico Asl P., si legge in sentenza, avrebbe spiegato che soltanto dopo il primo intervento era stato accertato che l’impianto non si fermava completamente all’apertura della porta, consentendo così che l’aspo si muovesse).
2.8. – In definitiva, la Corte di merito ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso argomentativo che non presenta aporie di ordine logico e che risulta perciò immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità.
3. Infondato è pure il primo motivo di ricorso.
3.1. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito: che il vigente codice di rito penale pone una presunzione di completezza dell’Istruttoria dibattimentale svolta in primo grado; che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti; e che solo la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. 5, sent. n. 6379 del 17/03/1999, Bianchi, Rv. 213403).
Nell’alveo dell’orientamento interpretativo ora richiamato, la giurisprudenza di legittimità ha poi affermato che l’esercizio del potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello, tenuto ad offrire specifica giustificazione soltanto dell’ammessa rinnovazione, presenti una struttura argomentativa che evidenzi – per il caso di mancata rinnovazione – l’esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità (Sez. 6, sent. n. 40496 del 21/05/2009, Messina, Rv. 245009).
3.2. La Corte territoriale, nel rigettare l’istanza di rinnovo della istruttoria dibattimentale (e in particolare la richiesta di acquisizione del registro delle presenze dei dipendenti del servizio di manutenzione), ha rilevato che il servizio di manutenzione era attivato su richiesta degli operatori e comunque era un servizio di reperibilità notturna; e che, per situazioni facilmente risolvibili, provvedeva direttamente il personale in servizio; ha poi ritenuto che le censure difensive in ordine alla erronea interpretazione sulla pronta reperibilità del personale addetto alla manutenzione influivano (non sulla penale responsabilità dell’imputato, ma) sul carattere colposo della condotta posta in essere dall’infortunato (che ha preferito intervenire piuttosto che allertare il servizio di manutenzione).
3.3. In altri termini, la Corte di Appello ha giustificato il rigetto della richiesta difensiva sviluppando argomentazioni che, in applicazione dell’orientamento interpretativo sopra richiamato, non risultano sindacabili in questa sede di legittimità.
4. Inammissibili e comunque infondati sono anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso.
4.1. In via preliminare, occorre precisare che le disposizioni di cui all’art. 4 comma 2 ed all’art. 35 comma 1 d. lgvo n. 626/1994, ancora vigenti all’epoca del fatto (avvenuto il 14 maggio 2008), sono state abrogate per effetto dell’entrata in vigore del d. lgs. 81/2008 (avvenuta proprio il giorno dopo la commissione del fatto per cui è processo), nel quale sono state sostanzialmente trasfuse.
In particolare, l’art. 4 del d. lgs. 626/94, è stato trasfuso negli artt. 18, 28 e 29 e ss del d. lgs. 81/2008; mentre l’art. 35 del d. lgs. 626/94 è stato trasfuso nell’alt. 71 del d. lgs. 81/2008.
4.2. Tanto precisato, i motivi sono inammissibili in quanto il difetto di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza non comporta nullità di ordine generale assoluta ed insanabile, con la conseguenza che non può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità ove il vizio concerna la sentenza di primo grado ed esso non sia stato denunciato in appello (Cass. Sez. 1, sent. del 27/10/1995, Guarneri, rv. 202536).
Orbene, nel caso di specie, il (preteso) difetto di correlazione non ha formato oggetto di uno specifico motivo di appello, essendosi limitato l’appellante (attuale ricorrente) a dolersi – nello sviluppo del secondo motivo di appello (concernente la carenza di ogni responsabilità dell’imputato nella causazione dell’evento e per difetto dell’elemento soggettivo)- che nella sentenza del giudice di primo grado si era passati da una contestazione di due profili di colpa specifica ad un unico profilo di colpa non ben specificata.
4.3. I motivi in esame, quand’anche fossero ammissibili, sarebbero comunque infondati.
Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che le norme di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. – avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato – non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto da una modificazione dell’imputazione che pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato.
La nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni in questione, va cioè coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di escludere le effettive lesioni del diritto di difesa.
Il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 4, sent. n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo, Rv. 232423).
In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che sussiste il mutamento del fatto, quando la fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge subisca una radicale trasformazione nei suoi tratti essenziali, tanto da realizzare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 6, sent. n. 36003 del 14/06/2004, Di Bartolo, Rv. 229756).
Ed è stato precisato (Sez. 4, sent. n. 7704 del 27/06/1997, Crosara, Rv. 208556) che, in tema di lesioni colpose ai danni di un lavoratore, può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell’evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un’ipotesi differente. Se invece la contestazione concerne globalmente la condotta, addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste: è consentito al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata.
Nel caso di specie, al ricorrente è stato contestato di aver causato al lavoratore P.M. le sopra indicate lesioni personali per colpa generica (consistita in negligenza, imprudenza, imperizia) e per colpa specifica (violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare: per omessa previsione nel documento di valutazione dei rischi di quelli connessi all’operazione di incordatura; nonché per omessa disposizione che la zona relativa all’avvolgitore fosse dotata di dispositivo di interblocco).
Applicando i principi di diritto, ora richiamati, al caso di specie, nel quale la contestazione concerneva globalmente la condotta ed era contestata la colpa generica, non si ravvisa alcuna violazione del disposto di cui all’art. 521 cod. proc. pen.; e d’altronde, quando in una unica imputazione sono contestati più profili di colpa, l’esclusione di uno di essi (nel caso di specie, la mancata previsione nel documento di valutazione dei rischi di quelli connessi alla operazione di incordatura) è irrilevante quando quelli accertati siano stati comunque ritenuti sufficienti a produrre il fatto dannoso.
In definitiva, il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale, in punto di colpa generica e della colpa specifica relativa all’omessa dotazione da parte dell’impianto di un dispositivo di interblocco – non risulta vulnerato da alcuna insanabile lacuna argomentativa.
5. -Infine, infondato è anche il motivo aggiunto in sede di note difensive.
Non sfugge alla Corte che la questione relativa alla esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto è proponibile anche nel giudizio di legittimità ai sensi dell’alt. 609 comma 2 c.p.p.. (trattandosi di questione che – essendo stato introdotto l’art. 131 bis cod. pen. dall’art. 1, comma 2 – non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello); e che il giudice di legittimità è chiamato a verificare la sola sussistenza in astratto delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, salvo poi, in caso di valutazione positiva, procedere all’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al giudice di merito.
Senonchè, nel caso di specie, nel quale il bene protetto dalle norme in contestazione è la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, l’istituto non è neppure astrattamente applicabile per difetto di uno dei suoi presupposti applicativi: invero, la norma richiede l’eseguità nel pericolo, mentre nel caso di specie il pericolo, esaminato in una prospettiva ex ante, non era per nulla tale.
Alla considerazione che precede si aggiunge quanto rilevato dalla Corte territoriale in sede di diniego di concessione della prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante: dall’istruzione dibattimentale effettuata in primo grado è risultato che l’azienda (e, per essa, l’odierno imputato, che della stessa era il Presidente del Consiglio di Amministrazione), benché a conoscenza del problema del funzionamento dell’aspo, non ha ovviato ad esso rendendo sicuro l’impianto, come pur avrebbe dovuto.
6. In definitiva,la sentenza impugnata deve essere confermata, non essendo risultati fondati i dedotti motivi di censura.
7. Ne consegue che il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese processuali.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 12 novembre 2015.

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