Cassazione Penale, Sez. 4, 6 agosto 2015, n. 34299

Guanto incastrato nella sega circolare. Ruolo di un preposto.


 

Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: D’ISA CLAUDIO
Data Udienza: 04/06/2015

Fatto

Con sentenza del 19 dicembre 2013 il giudice monocratico del Tribunale di Milano affermava la penale responsabilità di F.S. in ordine al reato di cui agli artt. 113 e 590 II e III comma c.p. (in relazione agli artt 711 comma e 97, I comma D.L.vo 81/2008), perché “in cooperazione colposa con R.M. (giudicato con separato procedimento), rappresentante legale dell’impresa R.M. Costruzioni s.r.l. con sede in Desio, affidataria dei lavori di costruzione di una villa indipendente sita in Lainate (MI), viale Marche 20 e datore di lavoro di fatto dell’infortunato, e F.S., quale capocantiere, cagionavano lesioni gravi per colpa, in particolare il R.M., anche in violazione di specifiche norme antinfortunistiche, al cittadino straniero irregolare sul territorio nazionale A.S.A.A..

Era accaduto, infatti, che il predetto operaio, assunto in nero una settimana prima dell’infortunio dalla R.M. Costruzioni s. r. l. con le mansioni di manovale per lo svolgimento di lavori di edilizia, mentre tagliava nel cantiere sopraccitato, su ordine del capocantiere F.S., un pezzo di legno con la sega circolare messagli a disposizione, nonostante avesse la cuffia bloccata, rimaneva incastrato con il guanto tra la lama e il legno, così subendo un grave schiacciamento della mano sinistra.
Con le aggravanti di aver cagionato una lesione grave giudicata guaribile in un tempo superiore a quaranta giorni, a cui è conseguito l’indebolimento permanente dell’organo”.
Il reato era stato commesso in Lainate, il 13 gennaio 2009.
Il giudice di primo grado fondava il convincimento di colpevolezza sulla deposizione della funzionarla dell’ASL di Rho S.C., intervenuta a seguito dell’incidente, dell’agente di polizia locale di Lainate Omissis, che aveva proceduto al sequestro del macchinario, di G.C., collaboratore della Società R.M. Costruzioni e di D.A.L., coordinatore della sicurezza per la società B., sull’esame dell’imputato, sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, sulla deposizione di M.M., dipendente della società B., disposta ex art. 507 c.p.p..
Alla stregua di tali fonti di prova il Tribunale, accertato che effettivamente la sega circolare descritta non risultava in regola in quanto la cuffia di protezione, anche quando veniva alzata, non attivava l’immediato fermo della lama rotante, ed, escludendo che l’imputato avesse ricoperto il ruolo di capocantiere, concludeva “come F.S. ricoprisse in fatto un’attività di coordinamento delle attività svolte nell’ambito del cantiere che concretamente si realizzava nell’impartire ordini e direttive ai diversi lavoratori che materialmente vi operavano per realizzare le attività differenziate di loro competenza, in una posizione certamente sovraordinata “, in quanto ricopriva di fatto una posizione di garanzia sul piano della prevenzione” e che, pertanto, in ragione di tale posizione, nonostante fosse al corrente della circostanza che la sega circolare di cui trattasi non era a norma, ne consentiva l’uso da parte della persona offesa.
La Corte d’Appello di Milano, adita dall’imputato, con la sentenza indicata in rubrica ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale rideterminando la pena inflitta, ritenendo infondati i motivi relativi al merito del procedimento posti a base del gravame di merito.
Ricorre per cassazione il F.S. esponendo i seguenti motivi:
a) Violazione dell’art. 606 lett. d) ed e) c.p.p. in relazione agli artt. 125, comma 3, 512, 526 comma 1 bis, 546 c.p.p. e 113, 590 cod. pen..
Si denuncia, in particolare, vizio di motivazione per avere la Corte d’appello omesso di dare riscontro al primo motivo del gravame di merito con cui si erano impugnate le due ordinanze dibattimentali del Tribunale per ottenere la esclusione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dal teste M.M.. Il Tribunale, infatti, aveva acquisito le dichiarazioni rese alla P.G. dalla persona offesa, divenuta successivamente irreperibile ai sensi dell’art. 512 c.p.p. ed aveva disposto l’assunzione del teste M.M. dopo aver escluso inizialmente detta testimonianza. Quanto al primo non era prevedibile che la persona offesa si rendesse irreperibile; quanto alla seconda testimonianza se ne rileva la contraddittorietà nella sua ammissione in quanto in un primo momento era stata ritenuta superflua e poi era divenuta assolutamente indispensabile.
Circa le due questioni si ritiene del tutto incongrua e superficiale la risposta data dalla Corte d’appello, non affrontando i temi specifici posti al suo esame.
Si richiama, sul punto, la giurisprudenza delle SS.UU. (Sentenza del 28.05.20103, Torcasio, Rv. 225470) hanno fornito un’interpretazione della norma di cui all’art. 512 c.p.p. estremamente rigorosa letta alla luce dell’art. 111 Cost..
b) vizio di motivazione in punto della ritenuta posizione di garanzia in capo all’imputato.
Per la Corte milanese l’imputato deve essere ritenuto responsabile del reato ascritto, poiché lo stesso avrebbe assunto una posizione di garanzia assimilabile a quella del preposto, sulla base delle dichiarazioni testimoniali indicate in sentenza. Ma la sentenza omette di considerare che il teste S., funzionario dell’Asl, aveva escluso che il F.S. fosse capocantiere; il teste D.A.L. ha riconosciuto che il soggetto indicato nel PSC fosse altro soggetto, cioè L.P., il teste G. ha affermato che il F.S. non aveva dato direttive ai lavoratori.
L’illogicità del percorso argomentativo viene ancora di più rafforzata dalla circostanza secondo cui non è stato possibile appurare se la sega circolare di cui trattasi fosse di proprietà della ditta R. o della ditta edile “Il f.” di tale Mo. Mo. alle dipendenze del quale lavorava in nero la persona offesa.

Diritto

I motivi esposti di cui il secondo non consentito in sede di legittimità, sono, comunque, infondati e determinano il rigetto del ricorso.
Iniziando con l’esame delle censure in rito, dalla lettura della sentenza impugnata emerge, chiaramente, che la Corte d’appello non ha ritenuto di rispondere alla eccezione, riguardante la violazione della disposizione di cui all’art. 512 c.p.p., ritenendola sostanzialmente fondata, laddove ha affermato che “…al di là delle dichiarazioni della parte offesa, la cui effettiva reperibilità è sostenuta solo da parziali ricerche e comunque è fortemente incrinata dalla richiesta di risarcimento danni, pur effettuata a distanza di parecchio tempo dal fatto…” e, dunque, ha basato (prova di resistenza) il suo convincimento di colpevolezza su altra cospicua serie di elementi probatori analiticamente valutati, già vagliati dal giudice di primo grado.
Per altro, la deposizione della parte offesa riguarda la sola dinamica dell’infortunio, in ordine alla quale non vi sono dubbi di sorta, atteso che lo stesso imputato ha spiegato, come rileva la Corte meneghina, di essere stato il primo ad intervenire in soccorso dell’operaio, sfilandogli il guanto che indossava rimasto incastrato nella sega circolare.
Pertanto, la prima censura è del tutto infondata.
Quanto alla seconda censura, riguardante l’ammissione del teste N. ai sensi dell’art. 507 c.p.p., essa è stata solamente enunciata, ma non sono state esposte le ragioni di diritto per cui tale deposizione dovrebbe essere affetta da inutilizzabilità. Pertanto, essendo la censura generica va dichiarata inammissibile, non tralasciando, però, di ricordare che è processualmente corretta la decisione del giudice che, nell’esercitare il suo potere discrezionale di ammettere ex officio prove ritenute indispensabili per il giudizio, ritenga, in un secondo momento ed all’esito dell’espletamento dell’istruttoria dibattimentale, indispensabile quella testimonianza che, indicata da una delle parti, era stata ritenuta superflua.
Peraltro, l’esercizio positivo del potere da parte del giudice di disporre l’assunzione di nuove prove a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. senza alcuna motivazione sull’assoluta necessità dell’acquisizione non determina alcuna inutilizzabilità o invalidità, non prevedendo l’ordinamento processuale specifiche sanzioni (Sez. 2, Sentenza n. 6250 del 09/01/2013 Ud. ,Rv. 254497).
Il motivo riguardante la contestazione della ritenuta posizione di garanzia in capo al ricorrente è inammissibile poiché inerisce alla valutazione degli elementi di prova sulla base dei quali i giudici del merito hanno ritenuto che il F.S. aveva assunto una posizione di garanzia assimilabile a quella del preposto, con consequenziali responsabilità in tema di sicurezza sul lavoro.
Va condiviso il richiamo operato dalla Corte d’appello alla giurisprudenza costante di questa Corte secondo cui, ai fini della prova del R. di preposto, o comunque di supremazia rispetto al lavoratore, non è richiesto un elemento probatorio documentale o formale, potendo il giudice del merito fondare il proprio convincimento, così come è avvenuto nella concreta fattispecie, anche su un compendio probatorio costituito da testimonianze e/o accertamenti fattuali, così come precisato nella giurisprudenza di questa Corte. Ed è stato altresì affermato, dalla Suprema Corte, che la qualifica di preposto deve essere riconosciuta con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’impresa, a prescindere da formali qualificazioni giuridiche (Sez. 4, Sentenza n. 38691 del 28/09/2010 Ud. ,Rv. 248860).
Dunque, la censura mostra di sovrapporre la figura del preposto “di diritto”, quale corrisponde alla definizione normativa (secondo la definizione data dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, che più o meno espressamente si richiama nel ricorso; ovvero persona delegata, ai sensi del citato D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 16), a quella del “preposto di fatto”. Se per la prima è necessario, tra l’altro, che egli abbia ricevuto un incarico dal datore di lavoro e che abbia ricevuto direttive per l’esecuzione dei lavori (cfr. art. 2 cit), nel caso di assunzione di fatto del R. la derivazione della posizione di garanzia dal concreto espletamento dei poteri tipici del preposto segnala che non vi è alcuna preliminare investitura da parte del datore di lavoro. Lo si ricava, oltre che da una analisi strutturale del fenomeno, dalla chiara lettera del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299, per il quale “Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”. Correttamente, quindi, è stato escluso dai giudici di merito che assumesse rilevanza, rispetto ad una contestazione che indica chiaramente la “preposizione di fatto”, l’indagine circa la relazione tra il F.S. e l’organigramma dell’impresa R. Costruzioni s.r.l.
Né, per gli stessi motivi, sarebbe pertinente il richiamo alla disciplina che la delega di funzioni ha rinvenuto nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 16. Occorre infatti tener distinta la tematica della delega di funzioni prevenzionistiche, la quale richiede per la sua efficacia – in primo luogo nei confronti del delegante – la ricorrenza dei requisiti esplicitamente elencati dal menzionato art. 16 (tra i quali va rinvenuto anche quello della specificità dell’oggetto: Sez. 4A, sent. n. 11442 del 23.11.2012, Donadon, n.m.) da quella evocata dal “principio di effettività” (D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299). Infatti, in tema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori può affermarsi che il principio di effettività, se vale ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, non vale a rendere efficace una delega priva dei requisiti di legge; se nonostante tale carenza il delegato verrà chiamato a rispondere del proprio operato sarà in quanto egli ha assunto di fatto i compiti propri del datore, del dirigente o del preposto, e non per la esistenza di una delega strutturalmente difforme dal modello normativo.
Correlativamente, il delegante “imperfetto” manterrà su di sé tutte le funzioni prevenzionistiche che l’atto non è valso a trasferire ad altri e i suoi doveri non si ridurranno all’obbligo di vigilanza di cui all’art. 16 D.Lgs. cit..
Come riportato nella superiore parte narrativa, la Corte di Appello, facendo proprio l’impianto motivazionale del primo giudice, ha analiticamente esplicato, con motivazione immune da censure, le ragioni per le quali ha ritenuto che il F.S. avesse assunto di fatto il ruolo di preposto; il ricorrente pretende che questa Corte rivaluti gli elementi probatori acquisiti secondo una rilettura diversa da quella dei giudici del merito, dimenticando che non c’è, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti, ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa, limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, contestando la validità (non l’attendibilità) delle dichiarazioni rese da alcuni testi per contrastare dichiarazioni rese da altri testimoni, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Da ultimo, quanto alla eccepita (V. parte finale del ricorso) violazione delle disposizioni in materia di contestazione regolate dagli art. 516 c.p.p., e la mancata correlazione tra l’imputazione contestata, laddove in rubrica la posizione di garanzia del ricorrente era stata collegata al ruolo di capocantiere, mente in sentenza a quella di “preposto di fatto”, si ritiene tale censura del tutto infondata, avendo i giudici del merito, con riferimento alla qualifica di “capocantiere”, esplicitato che il F.S. avesse assunto il ruolo di preposto del datore di lavoro. Trattasi quindi non di nuova o diversa contestazione ma di mera specificazione di quanto contestato, in riferimento alla quale il ricorrente ha esercitato nella maniera più ampia il suo diritto di difesa.
Al rigetto del ricorso segue al condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma all’udienza del 4 giugno 2015.

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