Il S., apprendista nella cantina sociale (OMISSIS), mentre era alla guida di un carrello elevatore, nel compiere una curva, perdeva il controllo del mezzo che si ribaltava schiacciandolo.
Il L. era stato chiamato a risponderne in qualità di dipendente della ditta e tutore del lavoratore minorenne, essendosi ravvisati a suo carico profili di colpa, sia generica, sub specie dell’imprudenza e negligenza, sia specifica, fondata quest’ultima sulla inosservanza del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 5, lett. a), avendo lo stesso consentito l’utilizzo del carrello elevatore al giovane apprendista – Sussiste.
La Corte afferma che: ” Quanto alla censura volta a prospettare l’interruzione del nesso causale basata sul comportamento della vittima (che avrebbe inopinatamente assunto l’iniziativa di mettersi alla guida del carrello elevatore), non tiene conto che, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile.
Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento”.
“I giudici di appello hanno confermato il giudizio di responsabilità, facendo riferimento all’inadempimento da parte dell’imputato, in relazione alla posizione di garanzia ricoperta, agli obbligo di tutela e di vigilanza finalizzati proprio ad evitare che gli apprendisti, durante il periodo di formazione, in virtù di scelte irrazionali e/o per comportamenti non adeguatamente attenti, potessero compromettere la propria integrità fisica.”
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORGIGNI Antonio – Presidente –
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Consigliere –
Dott. LICARI Carlo – Consigliere –
Dott. IZZO Fausto – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Patrizia – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) L.P., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 11/03/2005 CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. PICCIALLI PATRIZIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Iacoviello Francesco Mauro che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito, per la parte civile, l’avv. De Arcangelis del Foro di Roma che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Fedelti Luigi del Foro di Treviso che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata.
FattoDiritto
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Venezia confermava, per quanto qui rileva, la sentenza di primo grado con la quale L.P. era stato ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore minorenne S. A. (fatto avvenuto in data (OMISSIS)).
La dinamica dell’infortunio non è contestata: il S., apprendista nella cantina sociale (OMISSIS), mentre era alla guida di un carrello elevatore, nel compiere una curva, perdeva il controllo del mezzo che si ribaltava schiacciandolo.
Il L. era stato chiamato a risponderne in qualità di dipendente della ditta e tutore del lavoratore minorenne, essendosi ravvisati a suo carico profili di colpa, sia generica, sub specie dell’imprudenza e negligenza, sia specifica, fondata quest’ultima sulla inosservanza del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 5, lett. a), avendo lo stesso consentito l’utilizzo del carrello elevatore al giovane apprendista.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per Cassazione L.P., articolando i seguenti motivi.
Con il primo ed il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del principio della correlazione tra accusa e sentenza ex art. 521 c.p.p., sul rilievo che il giudice di primo grado, discostandosi dal profilo di colpa generico contenuto nel capo di imputazione, aveva fondato la responsabilità del L. sulla violazione di una norma cautelare specifica, quale in particolare quella di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5.
Con il secondo motivo, inoltre, lamenta che i giudici di merito erroneamente avevano escluso che l’infortunio si era verificato per il comportamento assolutamente abnorme ed imprevedibile del lavoratore stesso.
Con il terzo motivo censura la definizione adottata dai giudici di merito con riferimento alla posizione rivestita all’interno dell’azienda dal L., di “preposto”, di “delegato o responsabile” della Cantina sociale (OMISSIS), di “tutore aziendale”, contestando la sussistenza delle condizioni di fatto e di diritto per la configurabilità in concreto di tali responsabilità.
Con il quarto motivo si duole della erronea applicazione della legge penale in relazione ai profili di colpa individuati a carico del L.. La censura, invero, si sofferma sul concetto di rischio, oggetto del dovere di informazione gravante sul datore di lavoro ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 21, per sottolineare che il citato obbligo non si estende ai rischi estranei alla specifiche mansioni del lavoratore.
Nessuna responsabilità per colpa poteva, pertanto, essergli attribuita in presenza del comportamento abnorme dell’apprendista, al quale solamente era imputabile l’iniziativa di porsi alla guida del muletto, in cui, per prassi, erano state lasciate inserite le chiavi nel quadro motore.
Con il quinto motivo lamenta la carenza della motivazione, sia sotto il profilo della insufficienza a comprendere la ratio della decisione sia sotto quello dell’omessa valutazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza.
Con il sesto motivo si duole dell’erronea applicazione degli artt. 69 e 133 c.p. con riferimento alla commisurazione della pena ed al mancato giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante contestata.
Il ricorso è infondato.
Infondati sono il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi e, pertanto, trattabili congiuntamente.
Non può sostenersi, con la difesa, che il giudice di primo grado, valorizzando profili non specificamente evidenziati nel capo di imputazione (ciò con precipuo riferimento alla violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, che prevede l’obbligo per ciascun lavoratore di prendersi cura della propria sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo), sarebbe incorsa nella violazione del principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.
Tale violazione non vi è stata alla luce di quella che risulta essere stata la contestazione formulata nei confronti dell’odierno ricorrente, delle ampie possibilità defensionali che questi ha avuto, in relazione a tutti i profili di colpa addebitatigli.
Non va del resto dimenticato che, per assunto pacifico, il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa.
Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Sez. 4, 29 gennaio 2007, Di Vincenzo).
Ciò che nella specie deve ritenersi, non potendosi revocare in dubbio che il L. si sia trovato a rispondere della propria condotta, ritenuta colposa, senza che ne siano derivati pregiudizi per le sue scelte difensive.
In vero, il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, commi 4 e 5, la cui inosservanza è stata ritualmente contestata, ha, infatti, operato un riferimento agli obblighi del datore di lavoro afferenti le misure necessarie per la sicurezza delle attrezzature di lavoro e per la loro utilizzazione.
Non è quindi dubitabile, che il richiamo operato dal primo giudice al cit. decreto, art. 5, che prevede, in via generale, l’obbligo di ciascun lavoratore di prendersi cura della sicurezza sul luogo di lavoro, rispetto ad una ricostruzione fattuale della vicenda qui non sindacabile, non si pone in posizione di sostanziale difformità rispetto alla normativa di prevenzione de qua a fondamento della ritenuta colpa specifica; in una vicenda in cui a carico del ricorrente, nella qualità di tutore del lavoratore minorenne, era stata ravvisata la violazione dell’obbligo di porre a disposizione del lavoratore attrezzature adeguate ai fini della sicurezza.
E’ ciò attraverso la valorizzazione del ruolo del L., oggetto di contestazione, e della connessa posizione di garanzia, trattandosi di lavoratore dipendente della società onerato di specifici obblighi di controllo sull’attività svolta dall’apprendista.
Del resto, decisivamente, per smentire la fondatezza della censura, va ricordato (con affermazioni di principio qui pertinenti) che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altri termini, riferimento alla colpa generica), essendo quindi consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.
Analogamente, non sussiste la violazione dell’anzidetto principio anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella colpa generica, giacchè il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata, sicchè questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (Sez. 4, 16 settembre 2008, Tomietto).
Quanto alla censura volta a prospettare l’interruzione del nesso causale basata sul comportamento della vittima (che avrebbe inopinatamente assunto l’iniziativa di mettersi alla guida del carrello elevatore), non tiene conto che, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile.
Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (Sez. 4, 29 gennaio 2007, Di Vincenzo).
Partendo da queste premesse indiscutibili in diritto, deve ritenersi corretta la decisione del giudice di merito che, con ricostruzione dei fatti e analisi convincente, ha escluso che la condotta del giovane apprendista avesse integrato alcunchè di esorbitante o di imprevedibile, tale da poter rilevare ai fini dell’interruzione del nesso causale, avendo ravvisato questo, sempre con argomentazioni qui incensurabili e giuridicamente corrette, nelle inosservanze colpose ascritte all’imputato (in particolare, di non essersi preoccupato di vietare l’uso indifferenziato dei carrelli elevatori da parte di tutti i dipendenti, compresi gli apprendisti, tra cui il S., che lo utilizzava quotidianamente nonchè di tollerare che le chiavi di accensione di tali mezzi fossero stabilmente inserite nel quadro di comando, il che consentiva un uso immediato e diretto da parte di qualunque dipendente).
Siffatta conclusione è ineccepibile, tenendo altresì conto della situazione del tutto particolare del caso in esame, in cui lo sfortunato protagonista era un ragazzo di quindici anni, la cui giovane età avrebbe dovuto mettere in guardia l’imputato sulla avventatezza tipica degli adolescenti ed indurlo ad adottare misure concrete ed efficaci, atte ad impedire l’utilizzo dei carrelli elevatori.
Ciò anche in coerenza con il dettato della L. 17 ottobre 1967, n. 977, art. 6, comma 1, avente ad oggetto la tutela del lavoro e dei fanciulli adolescenti, che vieta l’utilizzo di macchine operatrici da parte dei minori.
Destituita di fondamento è anche la censura, contenuta nel terzo motivo, con la quale si assume la violazione dei principi in tema di posizione di garanzia.
I giudici di merito, con motivazione affatto illogica e con accertamenti fattuali qui non rivisitabili, hanno, infatti, ricostruito lo specifico ruolo rivestito, formalmente e sostanzialmente, dal ricorrente all’interno della ditta (lavoratore dipendente al quale era stata affidata la formazione dell’apprendista, v. L. n. 977 del 1967, art. 6, comma 2), individuando le carenze comportamentali allo stesso ascrivibili e riconducendo puntualmente anche a dette carenze la responsabilità dell’evento lesivo per cui è processo.
In proposito, per escludere qualsivoglia, pretesa violazione di legge è sufficiente ricordare come l’individuazione dei destinatari delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro va effettuata non in base a criteri astratti, ma avendo riguardo alle mansioni ed alle attività in concreto esercitate (ex pluribus, Sez. 4, 13 marzo 2008, Reduzzi ed altri).
Questo principio risulta attuato in concreto in modo convincente dai giudici di merito, che hanno analizzato il ruolo svolto dal L. all’interno dello stabilimento, delineando le singole responsabilità facenti capo allo stesso.
I giudici di appello hanno confermato il giudizio di responsabilità, facendo riferimento all’inadempimento da parte dell’imputato, in relazione alla posizione di garanzia ricoperta, agli obbligo di tutela e di vigilanza finalizzati proprio ad evitare che gli apprendisti, durante il periodo di formazione, in virtù di scelte irrazionali e/o per comportamenti non adeguatamente attenti, potessero compromettere la propria integrità fisica.
D’altra parte, lo stesso imputato non ha mai contestato il ruolo di formatore svolto all’interno dell’azienda ed, in assenza di ogni prova circa la sussistenza di una concreta e diversa situazione di fatto in ordine allo svolgimento del lavoro, non può porre validamente in discussione che siffatto compito gli imponeva di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro.
Infondato è anche il quarto motivo, con il quale il ricorrente insiste, ai fini dell’esclusione della responsabilità, sulla configurabilità in concreto del comportamento abnorme del giovane apprendista, che si sarebbe posto alla guida del carrello elevatore.
Oltre a fare riferimento a quanto sopra esposto con riferimento al motivo afferente l’asserita abnormità del comportamento del lavoratore, va aggiunto che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione da parte del lavoratore subordinato.
Tale conclusione è fondata sulla disposizione generale di cui all’art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, secondo le quali, il datore di lavoro o comunque la persona dallo stesso delegata, è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il titolare della posizione di garanzia ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera, essendo tale posizione di garanzia estesa anche al controllo della correttezza dell’agire del lavoratore, essendo imposto al “garante” (anche) di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela.
In conclusione, la censura non tiene conto che in tema di infortuni sul lavoro, l’eventuale colpa concorrente dei lavoratori non può spiegare alcun effetto esimente per uno dei “garanti” della sicurezza sul posto di lavoro, che si sia reso comunque responsabile, come nel caso in esame, di specifica violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica, in quanto la normativa relativa è diretta a prevenire pure la condotta colposa dei lavoratori per la cui tutela è adottata (v, tra le tante, Sezione 4, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).
E’ in questo quadro normativo che si pone correttamente la sentenza impugnata, laddove ravvisa la colpa, e il conseguente nesso eziologico con l’evento dannoso, del L., delegato alla formazione dell’apprendista.
In particolare, è stato sottolineato che alla cantina sociale (OMISSIS) si verificava un uso indifferenziato dei carrelli elevatori, quanto meno tollerato all’interno dell’azienda, ed in particolare dal L., come emerso dall’istruttoria dibattimentale (v. il teste V. che ha riferito di essere stato visto in più di un’occasione dal proprio tutore L. alla guida del mezzo senza che quest’ultimo sollevasse alcuna obiezione).
Proprio la posizione di garanzia de qua ricoperta dal L. e l’incontestabile accertamento della violazione dell’obbligo di vigilare sull’utilizzo dei carrelli elevatori, non attribuisce alcun rilievo, per escludere la responsabilità dello stesso, al comportamento negligente, trascurato, imperito del lavoratore, che abbia contribuito alla verificazione dell’infortunio.
Il quinto motivo è infondato, risolvendosi in una reiterazione della censura afferente l’omessa valutazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza.
Anche il sesto motivo è infondato. In tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione delle circostanze, nonchè per quanto riguarda in generale la dosimetria della pena, è da ammettere anche la cosiddetta motivazione implicita o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”), ma anche quando si impone un obbligo di motivazione espressa, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra le circostanze e, quindi, alla quantificazione della pena, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p. sono censurabili in Cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (v. Sez. 4, 8 aprile 2008, Grimaldi).
La sentenza è in linea con tali principi avendo il giudicante formulato il giudizio di congruità in considerazione delle complessive modalità del fatto, della incensuratezza del L. e del parziale risarcimento offerto alla famiglia della vittima.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla costituita parte civile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile e liquida le stesse in Euro 3.250,00, oltre I.V.A. e C.P.A. e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2009