Cassazione Penale, Sez. 4, ud. 03 dicembre 2015, n. 2539

… Questa Suprema Corte ha da tempo chiarito che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico ed il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro. Ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico (Sez.IV, 19.12.2011, n.46849; 27.2.2008, n.8593; 26.10.2007, n.39606).
Dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il DG.E. ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del F.A., che quale direttore tecnico di cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal POS e dal DPI, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità.


Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: MENICHETTI CARLA
Data Udienza: 03/12/2015

Fatto

1. Con sentenza in data 30 aprile 2014 la Corte d’Appello di Trento confermava la sentenza del locale Tribunale, Sezione distaccata di Cavalese, di condanna di F.A. alla pena di giustizia per il reato di cui all’art. 590, III comma, c.p. perché, nella qualità di Direttore Tecnico dell’impresa edile “D.F. Costruzioni s.r.l.” aveva cagionato a DG.E., dipendente di tale ditta quale capo cantiere, lesioni personali consistite in una “frattura radio/ulna dx” con prognosi iniziale di giorni 35, prolungata fino a un totale di 73 giorni a seguito di certificati medici rilasciati dall’INAIL alle successive visite di controllo, per imprudenza, negligenza e imperizia e per la violazione delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 18 D.Lgs. 9.4.2008, n. 81.
2. La Corte perveniva alla pronuncia di condanna – ritenuta preliminarmente la procedibilità d’ufficio del reato – rilevando che l’infortunio si era verificato a seguito del cedimento, per eccessivo carico (costituito da una benna carica appoggiata per l’asportazione dei detriti), del solaio ove stava lavorando il DG.E. unitamente ad altro operaio, e che si trattava di un rischio del tutto prevedibile che andava fronteggiato con le opportune e specifiche cautele, del tutto omesse. In particolare, nonostante il piano delle demolizioni (DPI) prevedesse, senza distinguo o eccezioni, che nell’abbattimento dei solai in legno, l’asportazione della caldana in cemento, cioè lo strato superiore che i due operai stavano disgregando quando era avvenuto il fatto, avrebbe dovuto essere eseguita “con gli addetti imbracati ed ancorati a funi opportunamente tesate”, tale minima misura di salvaguardia, che avrebbe evitato l’incidente, non era stata predisposta. Attribuiva quindi la responsabilità dell’evento al F.A., indicato nel POS e nel DPI come direttore tecnico di cantiere, che avrebbe dovuto in questa sua veste vigilare le attività quotidianamente svolte e pretendere che gli operai lavorassero ancorati a funi di sicurezza.
3. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, articolando cinque distinti motivi: violazione dell’art.590, ultimo comma c.p., in relazione all’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p. per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto la durata della malattia superiore a 40 giorni, mancando invece una prova certa sul punto; violazione dell’art.604 c.p.p. per mancata correlazione tra accusa e sentenza, avendo la Corte ritenuto un profilo di colpa non contestato ed omesso ogni risposta sullo specifico motivo di impugnazione; vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all’art.40, secondo comma, c.p. per aver configurato in capo all’imputato una posizione di garanzia che invece spettava allo stesso capo cantiere (preposto) che si era infortunato; vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all’art.40, primo comma, e 41 c.p. per mancanza del nesso di causalità tra la condotta omissiva dell’imputato e l’evento lesivo; infine, difetto di motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato.

Diritto

4. Il ricorso è infondato.
4.1. In ordine alla durata della malattia la Corte di Trento, nel disattendere il motivo di appello volto a dimostrare che si trattava di una lesione guarita entro i 40 giorni e dunque di un reato improcedibile per difetto di querela, ha fatto proprie le ragioni analiticamente indicate dal Tribunale rilevando che la prognosi iniziale effettuata dai sanitari del Pronto Soccorso di Cavalese, che per primi sottoposero a visita l’infortunato, fu di 50 giorni s.c. e la durata effettiva della malattia, fino alla guarigione, fu poi sicuramente superiore a 40 giorni perché, dopo la rimozione dell’apparecchio gessato (avvenuta al 35° giorno), fu necessario un periodo riabilitativo di fisiokinesiterapia per altri 15 giorni: tale periodo, come correttamente osservato dai giudici di merito, andava computato nella complessiva durata della malattia perché solo all’esito della prescritta rieducazione e non certo al momento di rimozione dell’ingessatura, si poteva parlare di reintegrazione completa della funzionalità dell’arto.
4.2. Neppure può condividersi la seconda censura. Il motivo si articola in due aspetti: mancata correlazione tra contestazione e sentenza e omessa motivazione sullo specifico motivo di appello. Quanto al primo aspetto, la infondatezza si ravvisa proprio nella contestazione elevata a carico del F.A. a cui è stata attribuita sia una colpa generica sia un profilo di colpa specifica, e segnatamente la violazione dell’art. 18 lett.f) del D.Lgs.n.81/2008 – applicabile a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio – che impone ai datori di lavoro e ai dirigenti di richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione, e dunque il F.A. è stato posto nelle condizioni di svolgere, così come ha svolto, ogni opportuna ed ampia attività difensiva relativamente alla sua responsabilità. Sul secondo aspetto questa Corte si è già pronunciata nel senso che “in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo d’appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione può porre rimedio ai sensi dell’art.619 c.p.p. la Corte di cassazione quale giudice di legittimità” (Sez.III, 21.5.2015, n.21029).
4.3. Gli altri tre motivi, che attengono all’elemento materiale della condotta, all’elemento psicologico ed al nesso di causalità con l’evento possono essere congiuntamente esaminati.
La Corte di merito ha analizzato in primo luogo la causa del crollo del solaio ed ha accertato – fornendone adeguata e logica motivazione in base alle testimonianze assunte – che non vi era stato alcun puntellamento, che vi era stata appoggiata una benna (traslata a mezzo gru) per l’asportazione dei materiali di risulta della demolizione, che non era stata verificata la presenza di travi ammalorate. Dunque, tra la tesi del cedimento dovuto all’eccessivo peso della benna carica e quella meramente teorica e non riscontrata di travi logorate, propugnata dalla difesa, ha ritenuto valida la prima, del sovraccarico concentrato, non mancando tuttavia di evidenziare come in ogni caso un solaio risalente nel tempo e con stratificazione di materiali che non consentiva una precisa intelligibilità della sua consistenza, avrebbe dovuto indurre ad adottare le misure di salvaguardia minime, destinate a garantire la sicurezza degli operai che vi lavoravano rispetto ai pericoli oggettivamente incombenti, perché insiti nella vetustà dell’immobile e nella insondabilità di insidie non immediatamente percepibili. Di contro, come già detto nella narrativa in fatto, nonostante l’espressa previsione del DPI, il DG.E. ed il secondo operaio lavoravano senza alcuna imbracatura e senza alcun sistema di ancoraggio, che ne avrebbe evitato la caduta sotto il cedimento del piano di appoggio.
Tale dinamica del fatto rende evidente il nesso di causalità tra l’omessa adozione della misura di prevenzione antinfortunistica e l’evento lesivo per cui è processo: se l’operaio fosse stato imbracato ed ancorato a funi opportunamente tese, come richiesto dal piano delle demolizioni, sarebbe rimasto “sospeso” e non sarebbe precipitato a terra. Appare raggiunta allora la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, che se fosse stata attuata la condotta omessa il sinistro non si sarebbe verificato, come ritenuto dalla Corte di Trento.
Deduce ancora il ricorrente che rivestendo il DG.E. la posizione di capo cantiere era tenuto a rispettare le misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro e dai responsabili aziendali, non avendo egli spazi di autonomia per disattenderle, sicché la sua condotta omissiva, del tutto imprevedibile nonostante la vigilanza del F.A., aveva reso l’infortunio tutto dipendente dalle sue scelte.
Tale tesi difensiva, già disattesa dai giudici di merito, è priva di pregio.
Giova preliminarmente rilevare che questa Suprema Corte ha da tempo chiarito che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico ed il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro. Ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico (Sez.IV, 19.12.2011, n.46849; 27.2.2008, n.8593; 26.10.2007, n.39606).
Dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il DG.E. ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del F.A., che quale direttore tecnico di cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal POS e dal DPI, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità.
Appare allora immune dalle censure mosse in ricorso l’affermazione di penale responsabilità del F.A., cui la Corte di Trento è pervenuta rilevando come l’imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere ed accertarsi che gli operai lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia.
5. ne deriva il rigetto del ricorso e la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 dicembre 2015

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