Infortunio mortale e colpa cosciente: consapevole alterazione del sistema di sicurezza della macchina. Responsabilità del direttore di stabilimento e del caporeparto.
> articolo collegato: Il Direttore di fabbrica e la rimozione di un sistema di sicurezza di un macchinario
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 20/04/2016
Fatto
1. Con sentenza n.433/14 del 26/03/2014, la Corte di Appello di Trieste confermava la sentenza del Tribunale di Pordenone del 18 ottobre 2012, appellata da P.D. e C.L., con la quale gli imputati erano stati condannati, concesse a entrambi le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno di reclusione ciascuno in relazione al reato di cui agli arti. 113, 589, comma 2, c.p..
2. Avverso tale sentenza, propongono ricorso per cassazione P.D. e C.L., a mezzo del proprio difensore, lamentando entrambi (in sintesi giusta il disposto di cui all’art. l73, comma 1, disp. att. c.p.p.):
I) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e delle norme processuali – manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione – mancanza della motivazione – ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) c.p.p.. Contestano la motivazione in ordine alla mancata la concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e la valutazione della gravità del reato ex art. 133 c.p., con conseguente impossibilità di declaratoria di estinzione del reato medesimo, per prescrizione;
II) travisamento del fatto – Contradittoria ed illogica motivazione – errata applicazione di norme sostanziali e processuali della legge penale – ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) c.p.p.. Contestano la motivazione in ordine all’affermazione che il macchinario fosse pericoloso perché era stato permesso l’accesso, alterando il meccanismo di inibizione alla porta del box ove era contenuto, previsto dal manuale d’uso mentre non è stata mai accertata la dinamica dell’infortunio.
Diritto
3. I ricorsi sono manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili.
4. La Corte territoriale ha, in vero, fornito puntuale spiegazione del ragionamento posto a base della propria sentenza procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto. Va rammentato che le sentenze di primo e secondo grado si compenetrano in un unica motivazione, versandosi in ipotesi di sostanziale c.d. “doppia conforme”.
4.1. Nel caso che occupa, le doglianze già proposte attengono esclusivamente al fatto. Giova, qui, rammentare che, in ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto può dirsi ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni unite penali, per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo e rimanendo preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
4.2. Quanto alla manifesta illogicità della motivazione, è consolidata in giurisprudenza la massima secondo cui la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito propone effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione è compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
4.3. In ordine motivi dedotti basta rammentare che trattasi, in vero, di censure con cui si pretende di rivalutare le acquisizioni probatorie ed i comportamenti degli imputati, prerogativa, questa, riservata al giudice di merito e preclusa in sede di legittimità infatti “esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali” (Sez. Un. 30/4/1997, Dessimone). L’impugnata sentenza -unitamente a quella originaria confermata-, in realtà, ha reso compiuta ed esaustiva motivazione, come tale non meritevole di alcuna censura, in ordine a tutte le doglianze sollevate anche con l’atto di appello (sez. 4 n. 16390 del 13/02/2015). Questa Corte regolatrice ha, in vero, più volte chiarito che non è sufficiente che gli atti indicati dal ricorrente siano contrastanti con le valutazioni del giudice o siano astrattamente idonee a fondare una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice; gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudice e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente contraddittoria la motivazione.
Ma non è questo il caso. Del resto va ricordato che il vizio di motivazione implica o la carenza di motivazione o la sua manifesta illogicità. Sotto questo secondo profilo la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.
5. In replica ai motivi dei ricorsi, da trattarsi cumulativamente poiché tra essi teleologicamente avvinti, va rammentato che:
5.1. Non incorre nel vizio di motivazione il giudice che, nel formulare il giudizio di comparazione delle circostanze, dimostri di avere, come nel caso di specie, considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 c.p. e gli altri dati significativi, apprezzati come equivalenti, assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto (Sez. 6, n.24728 del 29/04/2015; Sez. 2, n. 3610 del 15/01/2014 Rv. 260415).
5.1.1. Il giudizio di comparazione fra circostanze deve risultare il più idoneo a realizzare l’adeguatezza della pena da irrogare in concreto, alla luce della reale entità del fatto e della personalità dell’imputato. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ai fini del giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, anche la sola enunciazione dell’eseguita valutazione delle circostanze concorrenti esaurisce l’obbligo della motivazione in quanto, rientrando tale giudizio nella discrezionalità del giudice, esso non postula un’analitica esposizione dei criteri di valutazione (in tal senso Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Rv. 245930). Il ricordato principio vale anche per il giudice di appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia indicazione di quelli ritenuti rilevanti e di valore decisivo, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta confutazione (sez. 3, n. 19441 del 27/01/2012).
5.1.2. Nella fattispecie in esame la Corte territoriale, applicando correttamente i principi dianzi citati, ha evidenziato che le attenuanti generiche, nella specie giustificate dalla incensuratezza degli imputati, vanno necessariamente bilanciate con la gravità del fatto derivante non solo dalla natura dell’evento (un infortunio mortale) ma anche dal grado di colpa (colpa cosciente, benché non contestata) che risiede, nel caso in esame, proprio nella lucida esposizione a rischio fatta dagli imputati mediante la consapevole alterazione del sistema di sicurezza della macchina di recente acquisto. Da ciò l’evidenza della incensurabile valutazione di “non prevalenza” delle attenuanti generiche operata dal giudice di merito in applicazione del disposto di cui all’art. 133 c.p. in virtù del quale il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. La stessa Corte -quanto al giudizio di bilanciamento tra circostanze attenuanti ed aggravanti- nel corretto esercizio dei potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge, ha, quindi, dato rilevanza decisiva a tutti i parametri citati.
5.1.3. Giova, per completezza, rammentare che nella colpa cosciente (valutata, nel caso di specie, ai soli fini della comparazione delle circostanze) la verificazione dell’illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell’agente e mostra per così dire in azione l’istanza cautelare. L’agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa: il nesso tra cautela ed evento. L’evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva. Di qui il più grave rimprovero nei confronti di chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio. In questa mancanza, in questa trascuratezza, è il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell’evento: si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall’agire doverosamente (Sez. U., n. 38343 del 24 aprile 2014). Nel caso in esame i giudici del merito hanno ineccepibilmente ritenuto (sempre e solo ai fini della comparazione delle circostanze) elemento centrale nel giudizio di sussistenza della colpa cosciente l’aver consentito (se non disposto o autorizzato), nell’ambito delle rispettive funzioni, l’alterazione (mediante rimozione del blocco) dei sistema di sicurezza consentendo così di accedere all’impianto mantenendo anche il movimento principale di traslazione degli stampi nonostante che il manuale di istruzioni prevedesse che, in caso di apertura di una qualsiasi delle porte di accesso alla cabina e proprio grazie a quel sistema di blocco, le parti in movimento dei vari macchinari si sarebbero arrestate in automatico.
5.1.4. Quanto alla sussistenza, nel caso che occupa, della colpa causale degli imputati nella verificazione dell’evento mette conto osservare che, nel contesto della sicurezza del lavoro, tutto il sistema è conformato per governare l’immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l’uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Nella specie agli imputati (P.D. in qualità direttore di stabilimento e C.L. di caporeparto) veniva mosso il rimprovero di aver omesso di adottare le idonee misure protettive della integrità del lavoratore e di aver omesso di accertare e vigilare che di tali misure il dipendente facesse effettivamente uso. Non è revocabile in dubbio che essi, nelle rispettive qualità, fossero “gestori del rischio”. Ciò detto, venendo alla rilevanza delle eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, occorre osservare che, nell’ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l’uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il “garante è il soggetto che gestisce il rischio” e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l’illecito, qualora l’evento si sia prodotto nell’ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell’ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il D.Lgs. n. 81 del 2008 consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale. Nel caso che occupa gli imputati erano i gestori del rischio e l’evento si è verificato nell’alveo della loro sfera gestoria; la eventuale ed ipotetica condotta abnorme del lavoratore non può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento poiché essa non si è collocata al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. In altri termini la complessiva condotta del lavoratore non fu eccentrica rispetto al rischio lavorativo che i garanti (gli imputati) erano chiamati a governare (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Rv. 261108).
6. Ritiene, conclusivamente, il Collegio che, una volta accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito, non è consentito alla corte di cassazione prendere in considerazione, sub specie di vizio motivazionale, la diversa valutazione delle risultanze processuali prospettata dal ricorrente sulla base dei propri differenti soggettivi punti di vista (sez. 1, n. 6383/1997, Rv. 209787; sez. 1, n. 1083/1998, Rv. 210019), sempre che (come nel caso che occupa) sia da escludere con evidenza la prospettazione di un ragionevole dubbio circa l’effettivo raggiungimento dell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato (sez. 4. n. 97 dell’11/12/2015).
7. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 186 del 2000)- al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in € 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.