Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, ud. 24 marzo 2016 (dep. aprile 2016), n. 16620

Lavori di “disgaggiatura” di una parete e caduta mortale su un piano di calpestio ingombro: responsabilità del direttore della cava.


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: PAVICH GIUSEPPE
Data Udienza: 24/03/2016

Fatto

1. Con sentenza in data 16 marzo 2015, la Corte d’appello di Torino, 3 Sezione penale, confermava la condanna, pronunciata in esito a giudizio abbreviato, a carico di P.L.D. dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Saluzzo in data 23 aprile 2009 in relazione al reato di cui all’art. 589 cod.pen. (aggravato dall’inosservanza di norme prevenzionistiche), commesso in Bagnolo Piemonte il 10 ottobre 2007.
Il P.L.D. risponde del suddetto reato nella sua qualità di direttore di una cava in località Omissis presso la quale l’operaio D.M. stava effettuando un lavoro di “disgaggiatura” (pulitura) di una parete, servendosi di una pala, dal lungo manico, azionata manualmente; il lavoratore, in occasione dell’evento, si spostava su un piano di calpestio ingombro di massi e pietre e cadeva, battendo il capo all’altezza della tempia sebbene fosse munito di casco protettivo e così procurandosi lesioni che lo traevano a morte. La contestazione mossa al P.L.D. nella suddetta qualità é riferita al non avere attrezzato la cava in condizioni tali da permettere al lavoratore di operare in sicurezza, e ciò per colpa generica, nonché specifica (riferita in particolare alla violazione dell’art. 5 comma 1 del D.Lgs. 626/1994, che imponeva all’imputato di mettere l’operaio in condizioni di eseguire l’operazione in sicurezza); sia il giudice di primo grado che la Corte di merito negavano rilevanza a quanto previsto dall’art. 129 del D.P.R. n. 128/1959, in base al quale l’operazione di disgaggio (ossia quella che il D.M. stava eseguendo al momento dell’incidente) sia la prima operazione da effettuare dopo la volata di mina, e ciò in quanto detta prescrizione non escludeva la necessità di messa in sicurezza del sito, da realizzarsi mediante la rimozione delle pietre e dei massi con un mezzo meccanico.
2. Avverso la sentenza de qua ricorre il P.L.D., articolando il proprio ricorso in un unico motivo, riferito a violazione di legge: lamenta in particolare il ricorrente che la Corte territoriale abbia ritenuto applicabile nel caso di specie la norma generale di cui all’art. 5 del D.Lgs. 626/1994, anziché la norma speciale di cui all’art. 129, D.P.R. n. 128/1959, allora vigente e specificamente riferita all’attività mineraria estrattiva di cava: quest’ultima norma, deduce il ricorrente, imponeva che il c.d. disgaggio e la rimozione dei materiali a rischio di distacco fossero eseguiti prima di ogni altro lavoro; ove invece fosse stata eseguita con priorità l’operazione di rimozione di pietre e massi con mezzi meccanici, come ritenuto doveroso dai giudici di merito, ciò, secondo il ricorrente, avrebbe esposto i lavoratori impegnati in tale operazione ad altre e non meno gravi situazioni di pericolo, atteso che costoro avrebbero dovuto operare
immediatamente al disotto di una parete rocciosa interessata da rocce e materiali a rischio di distacco. Il ricorrente evidenzia che la stessa Corte di merito ha riconosciuto che l’evento mortale fu dovuto a una “sfortunatissima circostanza” e che la relazione della Polizia mineraria (cui la Corte territoriale non ha fatto alcun riferimento) ha concluso che, proprio in base alla normativa speciale applicabile, non fossero ravvisabili violazioni dirette o indirette a carico della ditta e del direttore dei lavori.
Da ultimo il ricorrente evidenzia che il reato contestato al P.L.D. si é estinto per prescrizione in data 10 aprile 2015.

Diritto

1. Il ricorso é infondato.
Si premette che, al di là dell’imprecisione del richiamo all’art. 5 del D.Lgs. 626/1994 (frutto di evidente lapsus calami, trattandosi di disposizione riferita in realtà agli obblighi dei lavoratori), ciò che deve intendersi richiamato in via di fatto nell’imputazione é il generale dovere di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori (art. 4, comma 5, del citato D.Lgs. 626/1994, in allora vigente), dovere che incombe tanto al datore di lavoro, quanto al dirigente e al preposto; e al quale, dunque, il P.L.D., nella sua qualità di direttore dei lavori in cava, era soggetto (vds. per un’ipotesi consimile Sez. 4, n. 24764 del 17/04/2013, Bondielli, Rv. 255400).
Tanto premesso deve osservarsi che l’argomento difensivo costituito dall’erronea applicazione di una norma a carattere generale in presenza di una disposizione a carattere speciale é errato e va disatteso: in realtà, nella motivazione della sentenza impugnata, in risposta al corrispondente motivo d’appello, si osserva che la sequenza delle operazioni di disgaggio non impediva l’adozione di tutte le misure necessarie affinché il lavoratore operasse in sicurezza; in altri termini, tra le due disposizioni (quella di cui al D.Lgs. 626/1994 e quella di cui al D.P.R. 128/1959) non vi é un rapporto di esclusione reciproca, ma semmai d’integrazione, nel senso che ambedue le disposizioni sono tese a evitare pericoli, e quindi l’esecuzione del disgaggio da parte del D.M., sebbene finalizzata a sua volta alla messa in sicurezza del sito, non escludeva (come correttamente osservato dalla Corte territoriale) che lo stesso D.M., nell’eseguire l’operazione, dovesse essere posto in condizioni di operare in sicurezza in ottemperanza al D.Lgs. 626/1994. Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare che la peculiarità del lavoro svolto nelle cave e nelle miniere, che giustifica, con criterio di specialità, la previsione di specifiche norme antinfortunistiche attinenti alle modalità di svolgimento di quel  particolare lavoro, non esclude l’identità della materia con quella oggetto in genere della più generale disciplina antinfortunistica (Sez. 4, n. 4489 del 26/01/1987, Ricotta, Rv. 175638).
2. Venendo al merito della questione, nella sentenza impugnata si offre contezza delle considerazioni svolte sul punto dal perito, ing. B., il quale ha evidenziato la pericolosità del piano di lavoro su cui operava la vittima: un piano di calpestio sul quale insistevano pietre e massi, sul quale era assai pericoloso camminare anche senza operarvi e, a maggior motivo, lo era per il D.M., costretto a eseguire l’operazione di disgaggio servendosi di una lunga pala e guardando sempre verso l’alto; di qui la conclusione, tratta dal perito, secondo la quale sarebbe stata necessaria la preventiva messa in sicurezza del sito mediante la rimozione delle pietre e dei massi che lo rendevano impervio, utilizzando un mezzo meccanico.
A proposito delle osservazioni del ricorrente in ordine a quest’ultimo punto, secondo le quali l’esecuzione di tale operazione avrebbe esposto a rischi i lavoratori che vi fossero impiegati (perché operanti a ridosso di una parete che presentava o poteva presentare pericoli di distacco), trattasi di argomentazione in fatto, sulla quale la Corte di merito ha implicitamente motivato richiamando le opposte conclusioni peritali, così argomentando in termini sufficientemente logici e congrui e, come tali, insindacabili in questa sede; quanto, poi, all’argomento secondo cui l’operazione di rimozione dei massi avrebbe reso necessaria anche la presenza di personale tecnico per la selezione degli stessi in modo da analizzarne tipologia, purezza e misura, trattasi all’evidenza di argomento non pertinente né condivisibile, atteso che la finalità dell’operazione in esame non poteva né doveva essere quella di scelta del materiale soggetto all’attività di estrazione, ma solo ed esclusivamente quella di messa in sicurezza del sito.
Quanto, poi, al fatto che l’evento occorso al D.M. fu dovuto a una “sfortunatissima circostanza” (ossia al fatto che il lavoratore batté il capo all’altezza della tempia nonostante indossasse il casco protettivo), deve osservarsi che detto evento si pone comunque in relazione con la norma cautelare violata e con la prevedibilità dell’evento medesimo, sicuramente sussistente a fronte della necessità di rendere sicuro e (per quanto possibile) esente da rischi il piano d’appoggio su cui operava il lavoratore, onde evitarne la caduta; ed é noto che, in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell’evento – anche sotto il profilo causale – non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Sez. U, Sentenza n. 38343 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106); l’aver riportato un trauma conseguente alla caduta da un piano di calpestio accidentato e non messo in sicurezza deve ritenersi rientrante nella categoria degli eventi prevedibili in relazione alla regola cautelare disattesa, a nulla rilevando che le modalità dell’urto siano state tali da vanificare la protezione al capo di cui il lavoratore era in quel momento equipaggiato.
3. Infine, quanto all’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente a chiusura dell’atto d’impugnazione, essa é infondata, atteso che nella specie trova applicazione la previsione di cui all’art. 157, comma 6, cod.pen., in base al quale i termini di prescrizione per il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono raddoppiati; pertanto il termine di prescrizione relativo al reato contestato non é ad oggi spirato, a nulla rilevando, a fronte dell’aggravante di cui all’art. 589 comma 2 cod.pen. (contestata in fatto al ricorrente), la concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante del ravvedimento post delictum di cui all’art. 62 n. 6 cod.pen., in forza di quanto disposto dal secondo comma del citato art. 157, cod.pen..
4. In base a quanto precede il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 24 marzo 2016.

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