Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, ud. 26 febbraio 2016 (dep. maggio 2016), n. 21575

Sistemi di prevenzione contro le cadute dall’alto: dispositivi di protezione collettiva.


Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: GIANNITI PASQUALE
Data Udienza: 26/02/2016

Fatto

1. La Corte di appello di Trieste, con sentenza 16 febbraio 2015, in parziale riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Tolmezzo, dichiarava D.P. e M.D. responsabili di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, commessa ai danni del lavoratore T.V. e li condannava, rispettivamente, il primo alla pena di euro 4560 di multa, in conversione di giorni 120 di reclusione, e il secondo alla pena di mesi tre di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena e con condanna per entrambi alla rifusione dei danni ed al pagamento delle spese di assistenza della costituita parte civile.
2. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale proponevano ricorso per cassazione sia il Sostituto Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste che il difensore di entrambi gli imputati.
3. Il ricorso del Procuratore generale era affidato ad un unico motivo di ricorso nel quale si deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 59 comma 2 lett. a) della legge n. 689/1981.
Secondo il Pubblico ministero ricorrente la Corte avrebbe errato nel convertire la pena detentiva in pena pecuniaria all’imputato D.P., in quanto il D.P., essendo stato condannato più di due volte, con sentenze irrevocabili per reati della stessa indole non avrebbe potuto beneficiare ulteriormente della sostituzione della pena detentiva a i sensi dell’art. 59 comma 2 lett. a). Precisava che la successione cronologica dei precedenti penali , tutti rappresentati da sentenze di applicazione patteggiata della pena (in due casi con pena sostituita ex lege 689/1981), impediva l’estinzione dei reati e dei connessi effetti penali prevista dall’art. 445 comma 2 c.p.p. in caso di positivo decorso del periodo di prova della durata di 5 anni. La dimostrata attitudine del soggetto a commettere reati e la insufficiente efficacia dissuasiva della misura sostitutiva nei confronti di persona che non aveva dimostrato alcun ravvedimento, comportava l’illegittimità della statuizione sul punto. Aggiungeva che la motivazione della Corte era stata contraddittoria, in quanto, la Corte territoriale aveva negato la concessione delle attenuanti generiche proprio in considerazione della gravità e della notorietà delle condizioni di rischio cui erano esposti i lavoratori che operavano alle dipendenze del D.P.. D’altra parte, la Corte territoriale – avuto riguardo alla gravità intrinseca dell’evento infortunistico (trauma fratturativo per caduta dall’alto, con guarigione completata in un lungo arco temporale), alla biografia penale del D.P., nonché all’inottemperanza delle prescrizioni impartite dall’ASL dopo l’incidente con ripresa dei lavori nelle medesime condizioni di pericolo – avrebbe dovuto comunque specificatamente motivare in relazione ai parametri di cui all’art. 133 per quale ragione preminente rispetto ai suddetti elementi negativi aveva ritenuto di concedere la sostituzione.
4.1 ricorsi degli imputati si affidavano a quattro comuni motivi di ricorso.
4.1. Con il primo si deduceva violazione dell’art. 111 del d. lgs n. 81/2008. I ricorrenti osservavano che la loro colpa era stata individuata da entrambi i giudici di merito nell’aver violato la previsione di cui all’art. 111, non allestendo dispositivi di protezione collettiva.
Senonché tale per l’appunto sarebbe la linea vita che era stata installata nel cantiere in cui è avvenuto l’infortunio, rispondente alle caratteristiche previste dalla norma UNI EN 795/2002.
4.2. Con il secondo motivo si deduceva violazione di legge in relazione agli arti. 74,75,111 e 122 del d. lgs. n. 81/2008.
Al riguardo i ricorrenti deducevano che dall’insieme delle suddette norme si evince che il datore di lavoro può orientarsi verso l’adozione di dispositivi diversi da quelli di protezione collettiva ogni qual volta tali diversi dispositivi siano idonei a prevenire il rischio per la sicurezza del lavoratore ovvero ogni qual volta risulti che i dispositivi di protezione collettivi non sono in grado di garantire un equivalente livello di protezione. Aggiungevano che proprio per garantire le migliori condizioni di sicurezza dei lavoratori era stata effettuata nel caso di specie la scelta di installare una linea vita (ammesso e non concesso che la stessa vada qualificata come dispositivo di protezione individuale). Solo l’autonoma, insana, estemporanea ed imprevedibile scelta suicida del lavoratore di sganciare il cordino che lo assicurava alla linea vita, aveva fatto si che lo stesso precipitasse al suolo, come si sarebbe dovuto desumere dalle dichiarazioni rese dallo stesso infortunato e dal di lui collega M.. Lo sganciamento dalla linea vita sarebbe stato anche la causa esclusiva dell’evento, in quanto, eliminando lo sganciamento dalla sequenza dei fatti, l’evento non si sarebbe potuto realizzare. D’altra parte la D.P. srl si era impegnata contrattualmente, in via alternativa, a realizzare i ponteggi oppure ad installare i dispositivi anticaduta (linea vita). La misura di sicurezza predisposta dalla D.P. srl sarebbe stata idonea a salvaguardare la sicurezza dei lavoratori se solo questi ne avessero fatto correttamente e doverosamente uso.
4.3. Con il terzo motivo veniva dedotta violazione di legge in punto di mancata concessione delle generiche, in quanto il Tribunale di Tolmezzo aveva negato le generiche senza motivare, mentre la Corte territoriale era giunta alla medesima conclusione “richiamando la valutazione del primo giudice in ordine al comportamento extraprocessuale tenuto dagli imputati”.
Senonché detto comportamento era stato valutato dal giudice di primo grado soltanto al fine di negare il beneficio della sospensione. D’altronde il M.D. era soggetto incensurato mentre i tre precedenti a carico di D.P. risalivano rispettivamente al 1992, al 1996 e al 2000.
4.4. Con il quarto motivo veniva dedotta violazione di legge in relazione agli arti. 76,78, 100, 102 e 122 c.p. in quanto la costituzione di parte civile era avvenuta in udienza non tramite il difensore nominato (Avv. Omissis), ma tramite un sostituto processuale dello stesso (Avv. Omissis), in assenza dell’interessata.
Senonché, osservano i ricorrenti, il difensore della parte civile poteva delegare al suo sostituto i poteri processuali, ma non anche il potere sostanziale di costituirsi parte civile. D’altronde l’atto di costituzione di parte civile era sottoscritto soltanto dall’Avv. Omissis.
5. In data 5 febbraio 2016 il difensore degli imputati depositava nota nella quale, da un lato, deduceva l’infondatezza del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Trieste, in quanto l’ultimo reato commesso dal D.P. risaliva al 16 febbraio 2000 ed aveva formato oggetto di sentenza di condanna irrevocabile soltanto il 16 novembre 2003, con la conseguenza che nell’ultimo decennio non risulta essere stata pronunciata alcuna sentenza di condanna nei confronti del D.P.. D’altra parte, ribadiva che le linee vita non sono dispositivi di protezione individuale e a sostegno di detto assunto riportava la Decisione d’esecuzione (UE) 2015/2181della Commissione del 24 novembre 2015 (in particolare il considerando 8, che qualifica dispositivi di protezione individuale soltanto i dispositivi di ancoraggio di tipo B ed E tra i quali non rientrerebbero le linee vita).

Diritto

l. Non fondato è il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Trieste
Invero – premesso che dal certificato penale in atti risultano a carico di D.P. i seguenti 3 precedenti: una sentenza di applicazione pena (emessa in data 7 ottobre 1994 e passata in giudicato il 25 ottobre 1994) in relazione ad un fatto di lesioni personali colpose commesso il 23 giugno 1992; una seconda sentenza di applicazione pena (emessa in data 27 ottobre 1998 e passata in giudicato il 21 novembre 1998) in relazione ad un fatto di lesioni personali colpose commesso il 22 marzo 1996 (in tal caso era stata disposta la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria); una terza sentenza di applicazione pena (emessa in data 17 settembre 2003 e passata in giudicato il 16 novembre 2003) in relazione ad un fatto di lesioni personali colpose gravi commesso il 16 febbraio 2000 (anche in tal caso era stata disposta la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria) – occorre osservare che, a norma dell’art. 59 comma 2 lett. A della legge n. 689/1981, “la pena detentiva, se è stata comminata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, non può essere sostituita nei confronti di coloro che sono stati condannati più di due volte per reati della stessa indole”.
Le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sent. n. 1601 del 13/01/1995, Saccomanno, Rv. 200043) hanno già avuto modo di precisare che, in tema di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, la condizione soggettiva che impedisce la sostituzione, qualora la pena sia stata irrogata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, a favore di coloro che siano stati condannati più di due volte per reati della stessa indole, opera esclusivamente quando il reato per cui tale pena è irrogata sia qualitativamente omogeneo (“della stessa indole”) rispetto a quelli che hanno formato oggetto delle precedenti condanne; tale esclusione, infatti, deriva non solo dalla dimostrata attitudine del soggetto a commettere reati, ma anche dalla prevedibile, insufficiente efficacia dissuasiva della misura sostitutiva nei confronti di persona che non ha dimostrato alcun ravvedimento nonostante abbia già subito un trattamento punitivo
maggiormente stigmatizzante.
Alle medesime conclusioni è pervenuta la giurisprudenza successiva (cfr. Sez. 6, ordinanza n. 45002 del 26/10/2005, De Salvo, RV. 233510), secondo la quale, in tema di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, la condizione soggettiva che impedisce la sostituzione, qualora la pena sia stata irrogata per un fatto commesso nell’ultimo decennio, a favore di coloro che siano stati condannati più di due volte per reati della stessa indole, opera esclusivamente quando il reato per cui tale pena è irrogata sia qualitativamente omogenea rispetto a quelli che hanno formato oggetto delle precedenti condanne; pertanto, il raffronto circa la medesimezza dell’indole va operato tra il reato oggetto della sentenza, rispetto al quale si intende effettuare la sostituzione, e i reati oggetto delle precedenti condanne.
E, sviluppando i suddetti principi, è stato affermato (Sez. 3, sent. n. 13948 del 29/02/2012, Delise, Rv. 252395) che il divieto di sostituzione della pena detentiva, previsto dall’art. 59, comma secondo, lett. a), legge 24 novembre 1981, n. 689, opera nel caso in cui nel decennio anteriore alla data di commissione del fatto, in relazione al quale è irrogata la pena da sostituire, l’imputato abbia riportato più di due sentenze di condanna per reati della stessa indole.
Poiché, nella specie, il fatto per cui si procede è stato commesso il 14 ottobre 2008 e, nei 10 anni anteriore, l’imputato ha riportato soltanto due precedenti della stessa indole (quella passata in giudicato il 21 novembre 1988 e quella passata in giudicato il 16 novembre 2003), come risulta dal certificato del casellario giudiziale, legittima è da ritenersi la sostituzione della pena detentiva disposta dalla Corte territoriale.
2. Non fondati sono anche i primi due motivi di ricorso degli imputati, che, in quanto attinenti entrambi al giudizio di penale responsabilità, vengono qui trattati congiuntamente.
2.1. Occorre in primo luogo precisare il perimetro del sindacato, ammissibile nella presente sede di legittimità.
Orbene, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, tra le tante, Sez. 3, sent. n. 4115 del 27/11/1995, 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non potendosi il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
2.2. Precisato nei termini che precedono l’orizzonte dello scrutinio di legittimità, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice.
2.3. Invero, il Tribunale di Tolmezzo – dopo aver richiamato la cornice normativa di riferimento, con specifico riferimento agli obblighi del datore di lavoro in materia di sistemi di prevenzione contro le cadute dall’alto – in primo luogo ricostruiva il fatto nei termini che seguono:
-la società D.P. srl aveva assunto l’appalto dei lavori consistenti nel rifacimento del manto di copertura di un fabbricato;
-tra le voci di spesa in preventivo, vi era anche la formazione di un ponteggio prefabbricato per la messa in sicurezza del personale in cantiere ovvero l’eventuale utilizzo di dispositivi di sicurezza anticaduta e/o piattaforma aerea e/o scale: nel POS vi era la previsione di adeguate misure preventive e protettive legate alla esecuzione dei lavori appaltati; nonostante dette previsioni, il cantiere in esame mancava totalmente di parapetti di protezione, avendo l’impresa preferito predisporre unicamente una classica linea-vita, vale a dire un DPI (dispositivo di protezione individuale) realizzato installando tre paletti fissi in corrispondenza di distinti punti sul colmo del tetto, collegati tra loro da un cordino d’acciaio al quale avrebbe dovuto agganciarsi l’operatore, dotato di una imbragatura di sicurezza;
-al momento del sinistro erano presenti sul tetto quattro operai ed era in corso l’attività di installazione di pannelli monopanel coibentati, lunghi sei metri e larghi uno, costituiti da due lamine in acciaio, con all’Interno materiale isolante, del peso complessivo di una decina di chili ciascuno; i pannelli venivano asportati in quota mediante un sistema di sollevamento con autoscala, in quota venivano tagliati e sagomati per poi essere fissati;
-le operazioni da svolgere e la presenza di più operai e attrezzi di lavoro aveva determinato spesso il fatto che il cordino, a cui i lavoratori si agganciavano, restasse impigliato sotto il pannello;
-i dipendenti avevano lamentato quelle condizioni di lavoro e in quel contesto era proprio accaduto che la corda di collegamento utilizzata da V.T. per agganciarsi alla cd linea-vita si era impigliata sotto un pannello; l’operaio aveva dovuto sganciarsi per poter passare dall’altra parte; il pannello era scivolato colpendolo alle gambe e lo aveva trascinato giù dal tetto facendolo cadere a terra con un volo di nove metri.
Così ricostruito il fatto, il tribunale: a) ravvisava la causa dell’infortunio nella scelta di dotare i lavoratori di semplici DPI – peraltro inadeguati – anziché munire il cantiere, come peraltro previsto nel preventivo e nel POS, di DPC (dispositivo di protezione collettiva) quali un ponteggio prefabbricato da allestire, attorno all’immobile, dovendo essere ritenuta quest’ultima l’unica misura di sicurezza realmente utile a scongiurare la caduta dall’alto; b) respingeva la tesi difensiva volta ad addebitare alla sola negligenza del lavoratore o a un suo comportamento anomalo la responsabilità dell’infortunio; c) osservava che la scelta dei dispositivi di sicurezza non poteva essere condizionata dalla breve durata dei lavori, peraltro protrattisi per circa un mese; d) valutava che non soltanto l’attività del dipendente rientrava perfettamente nell’ambito delle mansioni a lui attribuite, ma neppure poteva dirsi che la condotta fosse consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle prevedibili o imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro assegnato.
Il tribunale riteneva dunque provata la violazione della norma cautelare per la mancata adozione, su tutta l’area della copertura interessata dai lavori di manutenzione oggetto dell’appalto, di misure di protezione collettiva maggiormente idonee a prevenire il rischio di caduta dall’alto.
Quanto all’imputazione soggettiva dell’infortunio, il tribunale riteneva che dovesse essere chiamato a rispondere sia il datore di lavoro, soggetto titolare del potere decisionale e delle scelte operative in cantiere, sia il direttore tecnico del cantiere e titolare, in quanto tale, di una autonoma posizione di garanzia perché egualmente destinatario dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro, come peraltro indicato nel POS.
2.4. D’altra parte, la Corte territoriale – dopo aver preliminarmente richiamato la sentenza di primo grado, apprezzandola come “più che esauriente nel vagliare tutti gli aspetti del fatto e le ragioni di diritto” – ha correttamente osservato, nel respingere l’appello degli imputati in relazione al reato di cui al capo a), che la scelta rimessa al datore di lavoro in ordine ai dispositivi di sicurezza da adottare, diversi da quelli di protezione collettiva, deve essere guidata dal criterio di idoneità.
Poco rileva che la Corte – dopo aver ricordato che è dispositivo di protezione individuale (c.d. DPI) ai sensi dell’art. 74 del D.Lgs 81/2008. t.u. sicurezza sul lavoro, qualsiasi attrezzatura destinata a essere indossata e tenuta al lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo – ha ritenuto che l’imbragatura con cui l’operaio si collega a un cordino d’acciaio (c.d linea vita) che scorre tra una estremità e l’altra di tre pilastri sul colmo del tetto sia, nel suo complesso, sistema di protezione individuale, non potendo scindersi l’ancoraggio dall’imbracatura e dal cordino che ad esso viene collegato, in quanto il dispositivo di ancoraggio espleta concretamente la sua funzione proprio perché è necessario complemento destinato a prevenire il rischio di caduta.
Invero, quel che qui più rileva – secondo la Corte, che riprende sul punto la sentenza del Giudice di primo grado – è la scelta di dotare i dipendenti solo di tale dispositivo di protezione. Detta scelta è stata assolutamente inidonea rispetto alle condizioni del cantiere e alle mansioni da svolgere, dato che il lavoro doveva interamente svolgersi in quota e consisteva nello scaricare dalla scala mobile pannelli monopanel coibentati, lunghi sei metri e larghi uno, costituiti da due lamine in acciaio, con all’Interno materiale isolante, del peso complessivo di una decina di chili ciascuno, nel tagliarli e sagomarli in quota, per poi fissarli sul tetto. Operazioni queste che implicavano non solo l’uso di vari utensili che ingombravano l’area di lavoro, ma richiedevano la costante movimentazione dei pannelli e la inevitabile interferenza con il sistema di protezione (costituito dal cordino agganciato alla linea-vita): in tale contesto, il gesto del dipendente, che si sgancia dal cordino impigliato sotto il pannello, con l’intenzione di riallacciarlo subito dopo, ma viene investito dal pannello stesso, che gli scivola sulle gambe e, perdendo l’equilibrio, cade dal tetto da una altezza di quasi nove metri, lungi dal poter essere considerato un gesto suicida o irragionevole o abnorme (tale da porsi come causa esclusiva dell’evento), è stato ritenuto dalla Corte territoriale come concreta realizzazione di quel rischio che avrebbe dovuto essere correttamente valutato ed evitato.
In definitiva, secondo la Corte territoriale, soltanto a causa della imprudente, negligente e imperita scelta del sistema di sicurezza adottato, scelta imputabile al datore di lavoro e al direttore tecnico di cantiere, si è verificato l’infortunio in danno di T.V..
2.5. In definitiva, la Corte di merito ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso argomentativo che, a prescindere dalla qualificazione del dispositivo di protezione (se individuale, come sostenuto dalla Corte territoriale, ovvero collettivo, come sostenuto dai ricorrenti), non presenta aporie di ordine logico (e che risulta perciò immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità) laddove la Corte ha affermato che la scelta del dispositivo di protezione in concreto adottato era assolutamente inidonea rispetto alle condizioni del cantiere e alle mansioni da svolgere.
3. Non fondato è anche il motivo terzo, concernente il trattamento sanzionatorio e, in particolare, la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 4/7/2003 n. 36382, Dell’Anna ed altri, n. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”: Sez. 6, sent. N. 9120 del 2/7/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, sent. n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
Detta evenienza che non ricorre nel caso di specie, nel quale il giudice di primo grado – dopo aver distinto le posizioni di garanzia dei due imputati e ricordato i precedenti specifici esistenti a carico del D.P. – irrogava a quest’ultimo la pena di mesi quattro di reclusione e a M.D. la pena di mesi tre di reclusione, negando ad entrambi le attenuanti generiche e il beneficio della sospensione condizionale della pena, in considerazione del contegno extraprocessuale manifestatosi con l’inottemperanza alle prescrizioni impartite dall’A.S.L e con l’autorizzazione alla ripresa dei lavori nel cantiere di Tolmezzo con le stesse pericolose modalità di intervento accertate al momento dell’incidente.
E la Corte territoriale, nel negare a sua volta la concessione delle attenuanti generiche, ha richiamato espressamente la valutazione del primo giudice in ordine al comportamento extra processuale tenuto da entrambi gli imputati, sottolineando la gravità della condotta perché le condizioni di rischio di quell’ambiente di lavoro erano state già segnalate e lamentate dai dipendenti.
4. Non fondato, infine, è il quarto motivo di ricorso degli imputati, concernente la regolarità della costituzione della parte civile.
In punto di fatto, va precisato che: a) la costituzione di parte civile ha avuto luogo, in sede di udienza 15 dicembre 2011, mediante il deposito della dichiarazione di costituzione di parte civile di Omissis, moglie convivente di T.V., da parte dell’Avv. Omissis, quale sostituto dell’Avv. Omissis; b) l’Avv. Omissis era stato nominato sostituto dall’avv. Omissis con nomina del 14 dicembre; c) la procura speciale conferita dalla Sig. Omissis all’avv. Omissis non prevedeva soltanto la facoltà per il procuratore nominato di farsi sostituire a norma dell’art. 102 c.p.p., ma contemplava espressamente il conferimento al nominato difensore e procuratore (ovvero al sostituto di costui, designato ex art. 102 c.p.p.), dì ogni facoltà di legge, ivi compresa, in espressa deroga a quanto previsto dall’art. 100 comma 4 c.p.p., la facoltà di compiere atti che importino disposizione del diritto in contestazione, nonché di sollevare e discutere eccezioni processuali e di merito, di presentare istanze, memorie, di discutere oralmente, di proporre impugnazioni ex art 576 c.p.p. e di rinunciare alle stesse”.
Orbene, la Corte sulla base dei suddetti dati ha ritenuto – con motivazione immune da vizi logici e giuridici e, dunque, non censurabile in questa sede – che la signora Omissis abbia voluto espressamente conferire, sia al difensore sia al suo sostituto, un potere di disposizione del diritto in contesa, in coerenza con quanto previsto dall’art. 100 comma 4 c.p.p.., con conseguente piena validità ed efficacia del deposito dell’atto di costituzione di parte civile per mano dell’avv . Omissis quale sostituto dell’avv. Omissis.
5. Per tutte le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna gli imputati al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 26/02/2016.

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