Cassazione Penale, Sez. 4, udienza 10 aprile 2015, n. 2525

Il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale e ricorre l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all’impresa, in quanto l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell’area della loro operatività.


Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Data Udienza: 10/04/2015

Fatto

1. Con la gravata sentenza la Corte d’Appello di Genova ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Massa, sezione distaccata di Pontremoli in data 8 giugno 2012 nei confronti degli imputati appellanti DR.M., DR.C. e B.M., appellata anche dalle parti civili B.C., B.Ma. e G.A..
Gli imputati erano stati tratti a giudizio, nelle rispettive qualità – DR.C. quale amministratore unico della ELFE COSTRUZIONI S.r.l., DR.M. di direttore tecnico e B.M. di responsabile di produzione dell’officina – e condannati alla pena ritenuta di giustizia (nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili) per rispondere del reato di omicidio colposo, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica, in danno di Br., dipendente della prefata ELFE COSTRUZIONI, nonché di alcune contravvenzioni dichiarate prescritte.
2. Avverso tale decisione ricorrono :
2.1. DR.C. a mezzo dell’avvocato Omissis, deducendo con plurimi motivi vizio di motivazione e violazione di legge;
2.2. DR.M. e B.M. con ricorso congiunto a firma dell’avvocato Omissis deducendo la mancata assunzione di prova decisiva e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione

Diritto

3. Il sinistro in cui ha perso la vita il Br., lavoratore che eseguiva presso la officina della ELFE, unitamente ad altro dipendente, A. L., la prova di funzionamento di un motore LOMBARDINI LDA 450, si è verificato a causa del contatto con il suolo dell’albero di trasmissione che, per la forza dell’urto, veniva proiettato a fortissima velocità verso l’operaio, colpendolo mortalmente al capo.
La gravata sentenza ha confermato la già ritenuta responsabilità degli imputati oggi ricorrenti, ritenendo confermata l’ipotesi accusatoria e l’assoluto disprezzo di ogni regola antinfortunistica, come enunciate nel capo di imputazione in cui si fa riferimento alla omessa valutazione degli specifici rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori nell’unità produttiva relativa alla officina dove si svolgevano attività di riparazione e manutenzione ordinaria di piccole macchine ed alla omessa predisposizione del relativo documento di valutazione, alla omessa fornitura ai lavoratori dell’officina di un’idonea attrezzatura alla prova motori (banco di lavoro dotato di ganasce idonee a trattenere stabilmente il motore durante le prove di funzionamento, alla omessa corretta informazione e formazione dei dei lavoratori sui rischi specifici in relazione alla attività svolta.
I ricorsi sono infondati.
Quanto al ricorso di DR.C.,.osserva la Corte : la ricorrente con il primo motivo contesta da un lato la ricostruzione della dinamica del sinistro così come operata da entrambi i giudici di merito, dall’altro il ruolo di “dipendente” del Br., agente della Polizia Municipale.
Il Giudice d’appello, esaminate le emergenze istruttorie, alle pagg. 19 e ss, ha esaustivamente, e senza incorrere in incongruenze logiche, descritto la dinamica dell’incidente, vagliando l’apporto del perito e le dichiarazioni testimoniali.
Con le odierne doglianze la difesa della DR.C., per contrastare la solidità delle conclusioni cui sono concordemente pervenuti i giudici del merito, non ha fatto altro che riproporre in questa sede – attraverso considerazioni e deduzioni svolte anche in chiave meramente fattuale – tutta la materia del giudizio, adeguatamente trattata, in relazione ad ogni singola tematica, dalla Corte territoriale. Sicché le critiche mosse dalla ricorrente alla sentenza impugnata si risolvono in censure che tendono per lo più, sostanzialmente, ad una diversa valutazione delle risultanze processuali non consentita nel giudizio in Cassazione. Ed invero, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, dandone una corretta e logica interpretazione, con esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; se abbiano, quindi, correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). E poiché il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”, tanto comporta, quanto al vizio di manifesta illogicità, per un verso, che la parte ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro l’iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30; id., Sez. Un., 30.4.1997, n. 6402; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24) Inoltre, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’alt. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, proprio perché l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi – come s’è detto – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. Un., 24.9.2003, n. 47289; id., Sez. Un., 30.11.2000, n. 5854/2001; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24). Alla stregua di tali consolidati, ed ormai pacifici, principi e dei conseguenti limiti del giudizio di legittimità in tema di vizio della motivazione, deve riconoscersi che la sentenza impugnata, quanto alla ricostruzione della dinamica dell’ infortunio costato la vita al lavoratore ed alla ritenuta colpevolezza degli imputati, risulta priva di qualsiasi connotazione di illogicità. E va altresì evidenziato che già il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni qui sollevate dalla ricorrente, seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione de gli imputati; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, la sentenza dei giudici di seconda istanza legittimamente integra quella del Tribunale e rende quindi ancor più incisiva e pregnante la valutazione delle risultanze probatorie acquisite, avendo la Corte territoriale fornito ulteriori ed autonome considerazioni a fronte delle deduzioni degli imputati: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (“ex plurimis”, Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. – dep. 23/04/1994 – Rv. 197497).
A fronte delle integrative pronunce di primo e secondo grado la ricorrente, come detto, ha formulato argomentazioni ripetitive di quanto già prospettato ai giudici di primo e secondo grado.
In particolare va ricordato come , in tema di prova, costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie, l’apprezzamento, positivo o negativo che sia, dell’elaborato peritale e delle relative conclusioni (o delle conclusioni del consulente tecnico del P.M.): il giudice del merito può attenersi alle conclusioni del perito (o del consulente tecnico del P.M.), ove le condivida, rimettendo al suo elaborato il relativo supporto razionale. Certo, il giudice di merito ha l’obbligo di motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltreché logici. Ma è altresì certo che il giudice stesso può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta, e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire (“ex plurimis”, Sez. 4, n. 11235 del 05/06/1997 Ud. – dep. 09/12/1997 -Rv. 209675). Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia, poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (così, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 10835 del 08/07/1988 Ud. – dep. 11/11/1988 – Rv. 179651). Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, laddove la Corte distrettuale ha raccolto, e motivatamente condiviso, le indicazioni fornite dal consulente ed ha disatteso quindi, con puntuale argomentazione, le prospettazioni difensive degli imputati.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento al comportamento del Br..
La Corte di merito ha infatti ritenuto provato che questi – che peraltro al momento dell’Infortunio indossava una tuta della società- da tempo collaborava con la ELFE COSTRUZIONI, aggiustando motori da lavoro, come riferito dalla moglie del defunto.
Peraltro la questione non ha comunque carattere decisivo atteso che – come anche recentemente precisato da questa Corte (Sez. 4, n. 43168 del 17/06/2014, Rv. 260947) il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale e ricorre l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all’impresa, in quanto l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell’area della loro operatività (Sez. 4, n. 10842 del 07/02/2008 – dep. 11/03/2008, Caturano e altro, Rv. 239402; Sez. 4, n. 6348 del 18/01/2007 – dep. 15/02/2007, P.C. proc. Chiarini, Rv. 236105).
Circa la condotta del Br., è sufficiente ricordare il consolidato orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme (Sez. 4, n. 40164 del 03/06/2004, – Rv. 229564), il che è evidentemente da escludersi nel caso di specie essendo l’infortunato intento ad effettuare una lavorazione nell’interesse della ELFE.
Parimenti infondata si appalesa la censura – anche questa meramente reiterativa del corrispondente motivo di appello ed aspecifica in questa sede- relativa al luogo del sinistro, indicato dalla ricorrente quale semplice magazzino. Sul punto infatti la gravata sentenza ha evidenziato come l’attività svolta dal Br. era tale da non poter che essere svolta in un locale officina.
Inammissibile infine il motivo di ricorso concernente il trattamento sanzionatorio ed in particolare la mancata concessione delle attenuanti generiche. Il diniego è stato infatti motivato sulla base del comportamento dalla stessa tenuto subito dopo l’infortunio allorché si rese irreperibile, affermando di trovarsi a Milano, mentre in realtà risultò essere proprio nella zona in cui si erano verificati i fatti.
Si tratta di una considerazione ampiamente giustificativa del diniego, che le censure della ricorrente non valgono a scalfire.
4. Con riferimento ai ricorsi proposti congiuntamente dagli altri imputati, osserva la Corte: gli stessi formulano sostanzialmente un unico motivo di doglianza relativo alla mancata assunzione di una prova decisiva (nella specie il conferimento di un nuovo incarico peritale).
Va in proposito ricordato che questa Corte di legittimità ha ripetutamente affermato che “per prova decisiva sia da intendere unicamente quella che, non incidendo soltanto su aspetti secondari della motivazione (quali, ad esempio, quelli attinenti alla valutazione di testimonianze non costituenti fondamento della decisione) risulti determinante per un esito diverso del processo, nel senso che essa, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove fosse stata esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia” (ex plurimis, Cass. II, 16354\06, Maio); questa Corte ha anche precisato che “non sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva quando si tratti di prova che debba essere valutata unitamente agli altri elementi di prova processualmente acquisiti, non per eliderne l’efficacia probatoria, ma per effettuare un confronto dialettico che in ipotesi potrebbe condurre a diverse conclusioni argomentative” (Cass. II, 2827\05, Russo).
In particolare, con riferimento alla perizia, essa “per il suo carattere “neutro” sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’alt.606 comma primo lett. d) cod. proc. pen., in quanto giudizio di fatto che se sorretto da adeguata motivazione è insindacabile in cassazione” (Cass. IV, 14130\07, Pastorelli).
Per il resto valgono comunque le considerazioni già espresse quanto al ricorso della DR.C..
5. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché a rimborsare alle parti civili le spese sostenute per questo giudizio liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; li condanna inoltre a rimborsare, in favore delle parti civili le spese dalle stesse sostenute per questo giudizio che liquida in complessivi € 3.500,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso nella camera di consiglio del 10 aprile 2015.

Lascia un commento