Cassazione Penale, Sez. 4, udienza 20 maggio 2015, n. 34818

Infortunio mortale per l’uso di un montacarichi provvisorio. La delega non può essere attribuita dal committente ad un responsabile dei lavori individuato nel DL dell’impresa esecutrice.


 

Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: IANNELLO EMILIO
Data Udienza: 20/05/2015

Fatto

1. Con sentenza dell’11/3/2011 il Tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche, dichiarava P.L., G.P., S.V. e G.S. colpevoli del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ad essi contestato per avere, nelle qualità appresso precisate, cagionato la morte dell’operaio D.B. avvenuta in data 8/6/2004, a seguito della caduta, da un’altezza di circa 8 m, nella tromba di un ascensore in fase di allestimento nel cantiere sito nell’area ex Montedison di Porto Recanati, ove erano in corso lavori di costruzione di un complesso edilizio. Concesse a tutti gli imputati le attenuanti generiche e al G.P., al S.V. e al G.S. anche quella di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., reputate equivalenti alla contestata aggravante, il P.L. era condannato alla pena di sette mesi di reclusione e gli altri imputati a quella di sei mesi di reclusione, pene per tutti sospese.
L’evento era ascritto a responsabilità dei predetti nelle qualità:
il P.L., di presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante dell’impresa Immobiliare Zeus S.r.l., committente dei lavori di costruzione del complesso edilizio;
il G.P., di titolare dell’omonima ditta individuale, impresa appaltatrice;
il S.V., di amministratore unico della V. S.r.l., impresa subappaltatrice, incaricata dell’esecuzione di impianti idrotermosanìtari, datrice di lavoro della vittima;
il G.S., di coordinatore per la sicurezza dei lavori in fase di esecuzione e direttore dei lavori.
Ad essi si muoveva addebito di colpa generica e specifica per avere omesso, ciascuno per la propria parte, di verificare l’applicazione delle misure di sicurezza e per avere in particolare violato la norma di cui all’art. 68 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, circa l’obbligo di munire «le aperture nei muri prospicienti il vuoto o vani che abbiano una profondità superiore a m. 0,50» di «normale parapetto e tavole fermapiede» o di sbarrarle «convenientemente … in modo da impedire la caduta di persone».
Secondo la ricostruzione accolta dal Tribunale, sulla base dell’istruzione acquisita, il montacarichi era stato indebitamente utilizzato anche in precedenza per il trasporto dei materiali da un piano all’altro dell’edificio e l’accesso al relativo vano dei vari piani era risultato non munito delle prescritte protezioni o queste erano state apposte senza idoneo bloccaggio. Il giorno dell’incidente, intorno alle ore 13, il D.B. si era servito del montacarichi per salire dal pianoterra al secondo piano per festeggiare con alcuni colleghi un compleanno; terminato l’incontro era tornato al montacarichi e, non avvedendosi che nel frattempo qualcuno lo aveva portato al piano superiore, era precipitato all’interno del vano ascensore.
Il Tribunale in particolare aveva al riguardo attribuito rilievo alla deposizione del teste B., il quale aveva riferito in ordine a tale utilizzo fin dal giorno prima da parte dei pittori per portare la vernice ai piani superiori; al rilievo effettuato dal consulente del PM in ordine a tracce di trascinamento sul pavimento del montacarichi; alle dichiarazioni del teste S., indicative di un uso del montacarichi da parte degli operai.
Erano invece ritenute non credibili le deposizioni del Ch. e del D., tuttora dipendenti della ditta interessata dai lavori e pertanto in possibile posizione di soggezione.
Alla luce di tali emergenze riteneva inoltre il primo giudice che i bloccaggi dei bancali non potevano essere quelli trovati dai carabinieri, poiché il montacarichi non avrebbe potuto salire e scendere in presenza di essi, per come riferito dai testi P. e N.. Se inoltre davvero fossero state poste le quattro ganasce rinvenute il D.B. non avrebbe preferito servirsi del montacarichi, sobbarcandosi uno sforzo non indifferente per togliere quei bloccaggi. Inoltre sul bancale al secondo piano era stato rinvenuto un solo segno di ganascia, il che era incompatibile con la tesi secondo cui quel bloccaggio era stato utilizzato prima dell’incidente.
In altre parole secondo il tribunale doveva ritenersi accertato che successivamente al sinistro erano state poste in essere immutazioni dello stato dei luoghi volte a coprire eventuali responsabilità, in tal senso deponendo anche il fatto che gli agenti intervenuti sul luogo avevano trovato dipendenti delle società intenti a sostituire i sistemi di fissaggio dei bancali ovvero ad apporre i bancali stessi avanti la tromba dell’ascensore.
Altro indizio di un pregresso uso del montacarichi era stato il rinvenimento nell’immediatezza, da parte degli operanti, in fondo alla tromba dell’ascensore, di un cavo di grosse dimensioni di colore grigio, successivamente sparito quando essi erano tornati sul luogo: cavo verosimilmente collegato a una pulsantiera nella quale infatti era stato notato un filo grigio tagliato a raso alla morsettiera.
2. Gli interposti gravami degli imputati erano rigettati dalla Corte d’appello di Ancona, con sentenza del 3/10/2013.
2.1. In punto di penale responsabilità rilevava la Corte che, sebbene non potesse ritenersi che i bancali posti a protezione del vano ascensore non fossero presenti al momento in cui si verificò l’incidente, il contrario risultando da varie deposizioni testimoniali, nondimeno non poteva ritenersi ugualmente provato che tali bancali fossero muniti di sistemi di bloccaggio, ravvisandosi anzi concreti elementi in senso opposto, ed era comunque da escludere che questi ultimi fossero idonei a costituire concreto ed effettivo ostacolo all’uso indebito del montacarichi, attestato dalle prove raccolte.
Soggiungeva che, in ogni caso, a tutto concedere alla prospettazione difensiva secondo cui tali protezioni vi erano ed erano anche adeguate a prevenire il pericolo di caduta, gli imputati avrebbero avuto l’obbligo di attuare tutte le doverose cautele volte a impedire che i lavoratori potessero utilizzare il montacarichi attraverso la rimozione dei sistemi di fissaggio costituiti dalle ganasce. La prevedibilità di un tale comportamento avrebbe imposto, secondo la Corte, un penetrante controllo volto a prevenirlo ovvero «l’adozione di sistemi tali da porre un concreto ed effettivo ostacolo all’uso del montacarichi». Più precisamente le protezioni apposte sulla tromba del vano ascensore avrebbero dovuto essere non solo appoggiate o fermate con sicurezze comunque rimovibili, ma inchiodate, posto che una tale modalità di fissaggio avrebbe comportato un più efficace ostacolo alla utilizzazione del montacarichi. Affermava al riguardo che il fatto che l’ascensore fosse in fase di installazione non escludeva la possibilità di attuare misure che impedissero l’uso occasionale del montacarichi da parte di soggetti diversi da quelli impegnati nei lavori di montaggio dell’elevatore.
2.2. Ciò premesso sul piano della individuazione della regola cautelare omessa e della sua efficacia causale rispetto all’evento, la relativa omissione era poi ascritta a responsabilità di ciascuno degli imputati sulla base delle seguenti considerazioni.
2.2.1. Quanto al G.P., titolare della omonima ditta appaltatrice dei lavori di costruzione del complesso immobiliare nella palazzina nella quale si era verificato l’infortunio, il primo giudice rilevava che egli, in tale qualità, era o avrebbe dovuto essere consapevole della situazione di pericolo conseguente alla installazione degli ascensori e doveva considerarsi primariamente tenuto all’osservanza delle disposizioni antinfortunistiche mirate a prevenire i pericoli di caduta dall’alto per chiunque si trovasse a operare in cantiere o, comunque, di verificare l’adozione di dette misure da parte delle ditte subappaltatrici, alle quali egli peraltro era obbligato a fornire informazioni in ordine ai rischi specifici dell’attività da svolgere, sì da consentire la cooperazione nell’attuazione delle misure medesime.
2.2.2. Il G.S., coordinatore per l’esecuzione e direttore dei lavori, avrebbe dovuto – secondo la Corte – vigilare sulla corretta osservanza da parte delle diverse imprese operanti nello stesso cantiere delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori; segnatamente egli avrebbe dovuto vigilare in ordine alla concreta adozione di misure di prevenzione e protezione idonee ad evitare l’uso del montacarichi da parte dei dipendenti che operavano nel cantiere, non rilevando l’eventuale mancata conoscenza del fatto che il montacarichi fosse stato messo in funzione, trattandosi di evento imprevedibile e comportando, comunque, la presenza del vano ascensore un rischio interferenziale rispetto al quale l’imputato avrebbe dovuto attivarsi nei sensi predetti.
2.2.3. Quanto al S.V., amministratore unico della V. S.r.l., impresa subappaltatrice incaricata dell’esecuzione degli impianti idrotermosanitari e datrice di lavoro del D.B., rilevava la Corte che, ancorché i lavori oggetto di subappalto non prevedessero l’uso da parte dei dipendenti dell’impianto ascensore, egli avrebbe dovuto comunque previamente accertarsi delle possibili situazioni di pericolo cui erano esposti i lavoratori nell’ambiente in cui essi operavano, ancorché non strettamente connessi alle mansioni da essi svolte, e porre in essere le necessarie misure, cooperando a tal fine con l’impresa appaltatrice e con le altre imprese subappaltatrici, nonché attuando un rigoroso controllo sul loro rispetto.
2.2.4. Quanto infine al P.L., legale rappresentante della società committente dei lavori di realizzazione del complesso edilizio, rilevava la Corte che il fatto che lo stesso avesse nominato quale responsabile dei lavori e dei servizio di prevenzione e protezione lo stesso geom. G.P., ossia il titolare di una delle imprese appaltatrici, non lo esonerava dalle responsabilità connesse alla sua qualità di committente, dovendosi escludere la delegabilità di una tale funzione di controllo allo stesso soggetto nei cui confronti essa avrebbe dovuto essere esercitata, ciò comportando una inconcepibile identificazione tra controllore e controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere. Il P.L. non poteva pertanto considerarsi esonerato, in particolare, dall’obbligo – previsto dell’art. 6, comma 2, d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494 – di controllare l’operato del coordinatore per l’esecuzione dei lavori: obbligo il cui assolvimento, nella specie mancato, gli avrebbe consentito di avvedersi e di ovviare alla descritta situazione di pericolo, in quanto agevolmente percepibile.
3. Avverso tale sentenza tutti gli imputati propongono ricorso per cassazione, per mezzo dei rispettivi difensori.
P.L. articola a fondamento del proprio ricorso cinque motivi.
3.1. Con il primo deduce violazione di legge e in particolare degli artt. 2 e 6 d.lgs. n. 494/1996, con riferimento alla ritenuta inidoneità, a ottenergli l’esonero da ogni responsabilità, della nomina, con espresso atto di conferimento, del responsabile dei lavori e del servizio di prevenzione e protezione nella persona del geom. G.P..
Rileva che l’assunto espresso in sentenza secondo cui il titolare dell’impresa appaltatrice non può essere nominato quale responsabile dei lavori non trova alcuna conferma nelle disposizioni di legge richiamate, le quali non contengono alcun divieto al riguardo, neppure implicito, ma che anzi, indirettamente, confermano la piena legittimità dell’incarico così attribuito.
Tanto in particolare dovrebbe ricavarsi, secondo il ricorrente, dalla previsione di cui all’art. 2, comma 1, lett. f, d.lgs. cit. che, con riferimento al coordinatore per la sicurezza, specifica espressamente che si deve trattare di un «soggetto diverso dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice incaricato dal committente o dal responsabile dei lavori», specificazione invece non contenuta nella precedente lettera e) a proposito del responsabile dei lavori e a tale ipotesi non estensibile per il divieto di interpretazione analogica in materia penale.
3.2. Con il secondo motivo deduce carenza e/o contraddittorietà della motivazione nonché violazione di principi costituzionali in materia di responsabilità penale con riferimento alla ritenuta sussistenza dei presupposti perché questa sia nella specie affermata nei confronti del committente.
Rileva che la Corte d’appello, da un lato, correttamente premette, sulla base delle indicazioni desumibili dalla giurisprudenza di legittimità, che la responsabilità del committente non è di automatica applicazione, «non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori» ed essendo pertanto a tal fine necessario «verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo: alla specificità dei lavori da eseguire; ai criteri seguiti per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera; alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto o del contratto di prestazione d’opera; alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo»; dall’altro, tuttavia, contraddittoriamente omette di giustificare l’affermazione circa la consapevolezza o percepibilità, da parte di esso ricorrente, della situazione di pericolo poi sfociata nell’evento letale.
Rileva al riguardo che, essendo stata ravvisata ad origine dell’infortunio mortale l’agevole possibilità di rimozione dei sistemi di bloccaggio dei bancali, in relazione a ciò andava verificata la supposta immediata e agevole percepibilità, con esiti secondo il ricorrente negativi non potendo il committente essere in grado di verificare, poiché normalmente non dotato di particolari cognizioni tecniche, l’idoneità o meno dei sistemi di bloccaggio rispetto all’esigenza di impedirne una loro rimozione.
3.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione anche con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascritto.
Deduce che il principio affermato in sentenza circa l’incompatibilità tra il ruolo di responsabile dei lavori e quello di soggetto appaltatore dei lavori medesimi risulta affermato nella giurisprudenza di legittimità da arresto successivo alla commissione del fatto, la cui mancata conoscenza non è pertanto rimproverabile ad esso ricorrente.
3.4. Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione in relazione al giudizio di comparazione tra le attenuanti generiche e aggravanti nonché con riferimento alla determinazione della pena.
Deduce che le stesse argomentazioni difensive svolte in punto di penale responsabilità, valendo comunque a evidenziare un minor grado di colpa, avrebbero in subordine dovuto essere valorizzate ai fini di un più benevolo trattamento sanzionatorio sotto entrambi i profili predetti.
3.5. Con il quinto motivo, infine, deduce violazione dell’art. 62 comma quinto cod. pen. in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante ivi prevista.
Sostiene che, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, la norma codicistica non prevede, perché possa ritenersi integrata la circostanza attenuante, che la persona offesa debba aver voluto lo stesso evento voluto dal colpevole ma indica, quale elemento di minore gravità del reato, un comportamento doloso della persona offesa che sia tale da costituire una concausa efficiente del reato ai sensi dell’art. 41 cod. pen..
4. S.V. pone a fondamento del proprio ricorso quattro motivi.
4.1. Con il primo deduce vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, nonché violazione di legge, in relazione all’affermazione di penale responsabilità.
Premesso che la Corte d’appello formula con riferimento alle cause dell’infortunio due ipotesi alternative, quella della mancanza dei sistemi di bloccaggio dei bancali posti davanti ai varchi di accesso alla tromba dell’ascensore e quella della agevole rimovibilita degli stessi, rileva che tale alternativa non scioglie il nodo di come i fatti sono realmente accaduti ed inficia di conseguenza la coerenza logica del successivo ragionamento.
Assume che comunque la prima ipotesi (mancanza dei sistemi di bloccaggio) è in punto di fatto smentita da specifici atti di causa, dovendosi pertanto la contraria affermazione ritenere frutto di travisamento del fatto e delle prove.
Quanto poi alla seconda ipotesi (rimovibilita dei sistemi di bloccaggio), ne rileva l’incoerenza logica rispetto alla giustificazione causale in chiave accusatoria dell’evento. Sostiene, in sintesi, che il sistema di sicurezza era volto a prevenire il pericolo di cadute accidentali nella tromba del vano ascensore, non l’uso volontario, arbitrario e non consentito, del montacarichi da parte degli operai, attraverso peraltro un’operazione richiedente un certo sforzo.
Soggiunge che, peraltro, l’assunto espresso in sentenza secondo cui i bancali avrebbero dovuto essere inchiodati onde renderli inamovibili da parte di chicchessia, è palesemente illogico considerato che l’ascensore era in costruzione e che pertanto era escluso potesse attuarsi un sistema di assoluto sbarramento del vano ascensore.
Ne deriva, pertanto, secondo il ricorrente, l’efficacia causale esclusiva della condotta della stessa vittima in quanto non solo imprudente ma volontariamente votata al rischio, essendo stato lui a rimuovere il bancale posto a protezione e quindi a disattivarne o eluderne la funzione protettiva: condotta come tale non solo, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, del tutto anomala ed estranea al processo produttivo e alle mansioni attribuite, ontologicamente avulsa da ogni ipotizzabile e prevedibile scelta del lavoratore, ma anche comportante violazione dello specifico divieto posto dall’art. 5, comma 2, d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e pertanto integrante l’illecito penale previsto dall’art. 93, comma 2, del medesimo testo legislativo.
4.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in ordine alla posizione di garanzia e alla colpa di esso ricorrente, nonché violazione dell’art. 27 Cost. e degli artt. 42 e 43 cod. pen. e delle norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità.
Ricordato che ad esso ricorrente si addebita, quale datore di lavoro della vittima, l’inadempimento dell’obbligo di esaminare le possibili situazioni di pericolo esistenti nell’ambiente di lavoro e porre in essere le necessarie misure, lamenta che la Corte d’appello al riguardo illogicamente comprende tra le situazioni di pericolo cui riferire tale obbligo anche quella rappresentata da un uso improprio del montacarichi.
Sotto il profilo della colpa rileva, inoltre, che nella situazione data egli non avrebbe potuto rappresentarsi il fatto che un suo dipendente utilizzasse impropriamente un impianto non ricadente nella sua sfera di controllo, arrivando anche a rimuovere volontariamente la protezione adottata per accedervi.
Rimarca che l’ascensore non costituiva opera oggetto dell’appalto della ditta V. S.r.l., essendo la stessa incaricata della realizzazione degli impianti idrotermosanitari; tale attività non prevedeva l’uso dell’ascensore, né interferiva con quella relativa all’installazione di tale impianto; non vi era nessuna mansione, tra quelle assegnate al D.B., che tale uso prevedesse; nessuno tra gli operai della V. S.r.l. aveva mai utilizzato l’ascensore, né egli li aveva mai autorizzati a servirsene, anche solo come montacarichi; non vi era alcun motivo attinente all’attività lavorativa della V. e delle mansioni in quel momento svolte dal D.B. che potesse far prevedere che egli utilizzasse l’ascensore, poiché egli stava lavorando all’esterno con altro operaio ed erano in corso lavori di rifinitura.
Argomenta da tutto ciò che: i) il dovere di cooperazione nell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto competeva semmai alla ditta incaricata dell’installazione degli impianti di ascensore; ii) il dovere poi di coordinamento degli interventi di prevenzione e protezione dai rischi e quello di informazione di cui all’art. 7, comma 2, lett. b d.lgs. n. 626/1994 competevano semmai al responsabile dei lavori e al coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dei lavori; iii) l’obbligo, infine, di cui all’art. 68 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, di munire i varchi di accesso al vano ascensore di idonea protezione era del tutto estraneo alle attività oggetto del subappalto, tanto che egli non venne mai interessato dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori di eventuali interventi riguardanti l’impianto ed esso non era indicato nel piano operativo di sicurezza della V. S.r.l..
4.3. Con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 62 comma quinto cod. pen. in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante ivi prevista; ciò sulla base di argomenti sovrapponibili a quelli allo stesso fine dedotti nel ricorso P.L., sopra già riferiti.
4.4. Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione in relazione al giudizio di comparazione tra le attenuanti generiche e aggravanti.
Afferma che gli argomenti difensivi sopra svolti avrebbero dovuto quantomeno condurre ad un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla contestata aggravante.
5. G.P. e G.S. deducono a fondamento del loro ricorso quattro motivi.
5.1. Con il primo deducono violazione di legge in relazione alla mancata dichiarazione dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Deducono che il termine prescrizionale deve considerarsi pari, per il contestato reato, a sette anni e sei mesi e che lo stesso pertanto sarebbe già maturato in data 8/12/2011.
5.2. Con il secondo motivo deducono violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Rilevano che mentre nel capo d’imputazione si contestava agli imputati la mancata protezione degli accessi alla tromba dell’ascensore diretta a prevenire il pericolo di caduta, nella sentenza impugnata, dandosi atto che in realtà tali protezioni c’erano, si addebita agli imputati il fatto che queste ultime fossero facilmente rimovibili.
5.3. Con il terzo motivo deducono vizio di motivazione a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità con particolare riferimento alla valutazione delle prove e alla conseguente ricostruzione delle cause del sinistro.
Censurano in particolare la valutazione secondo la quale il comportamento della vittima non integrerebbe condotta abnorme, imprevedibile ed eccezionale idonea a interrompere il nesso causale.

Diritto

6. È palesemente destituito di fondamento il primo motivo del ricorso congiuntamente proposto da G.P. e G.S., con il quale si deduce l’intervenuta prescrizione del reato e che occorre prioritariamente esaminare attesone il rilievo preliminare e potenzialmente assorbente.
Trattandosi di fatto anteriore all’entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (ed. legge ex Cirielli) ma essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata in epoca successiva (17/2/2010), in forza delle disposizioni transitorie contenute nell’art. 10, commi 2 e 3, l. cit., occorre aver riguardo, ai fini dell’individuazione del regime prescrizionale applicabile, alla disciplina in concreto più favorevole.
Nella specie, peraltro, tale raffronto non assume rilievo pratico, atteso che entrambi i regimi prescrizionali conducono al risultato di fissare il termine prescrizionale in quindici anni.
Ed infatti, secondo la formulazione dell’art. 157 cod. pen. antecedente alle modifiche introdotte dalla citata legge, tale termine deve ritenersi stabilito in anni dieci (trattandosi di omicidio colposo commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, punito dunque, alla data del fatto, pur considerate le concesse attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata aggravante, con pena pari nel massimo a cinque anni) e deve essere prolungato della metà per effetto degli atti interruttivi ai sensi dell’art. 160, comma terzo, cod. pen. nella previgente formulazione, per un totale dunque di quindici anni, come già del resto evidenziato nella sentenza impugnata (pag. 20).
In applicazione invece del nuovo testo dell’art. 157 cod. pen. detto termine risulterebbe pari a dodici anni (prevedendo il novellato sesto comma, per il reato di che trattasi, il raddoppio del termine minimo di sei anni previsto per i delitti puniti con pena pari o inferiore nel massimo a sei anni: qual era quello in oggetto, alla data del fatto, pur considerata l’aggravante contestata) e dovrebbe quindi essere prolungato di un quarto per le interruzioni ai sensi del pure novellato art. 161, comma secondo cod. pen.: giungendosi pertanto anche per tale via al termine complessivo di quindici anni.
È evidente che, nella specie, tale termine, essendo stato il reato commesso in data 8/6/2004, non può considerarsi a tutt’oggi maturato.
7. È parimenti infondati il secondo motivo del ricorso proposto da G.P. e G.S. (asserita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza).
Il principio di correlazione tra accusa e sentenza, per pacifica giurisprudenza, è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 16422 del 29/01/2007, Di Vincenzo, non massimata).
Ciò è, nella specie, certamente consentito affermare atteso che il profilo di colpa specifica accertato in sentenza è certamente riconoscibile nella descrizione dell’addebito quale contenuta in imputazione. Non può, infatti, dubitarsi che il rimprovero di non aver adeguatamente sbarrato i varchi di accesso alla tromba dell’ascensore in modo da impedire la caduta di persone, sebbene non focalizzi lo specifico profilo considerato in sentenza, ne risulti comunque comprensivo e, per converso, questo ne costituisca sviluppo e precisazione non radicalmente innovativa tale da non consentire un compiuto esercizio del diritto di difesa.
Appare in ogni caso dirimente, nel senso di smentire la fondatezza della censura, il rilievo che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altri termini, riferimento alla colpa generica, come accade nella specie), essendo in tal caso consentito al giudice di aggiungere, agli elementi di fatto contestati, altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa. Analogamente, non sussiste la violazione dell’anzidetto principio anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella colpa generica, giacché il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (v. e plurìmis Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro, Rv. 260161; Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco, Rv. 257902; Sez. 3, n. 19741 del 08/04/2010, Minardi, Rv. 247171; Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237469).
8. In ordine logico conviene a questo punto esaminare le censure che, nel primo motivo del ricorso proposto da S.V., attengono al nesso causale, alla individuazione della regola cautelare che si assume violata; alla causalità della colpa.
Tali censure sono infondate.
Come risulta evidente dalla superiore narrativa la Corte d’appello opera una parziale modificazione del fondamento motivazionale della condanna.
Secondo i giudici di secondo grado la sentenza del tribunale è, infatti, condivisibile non nella parte in cui ipotizza l’assenza di protezioni negli accessi al vano ascensore aperti nei vari piani ma solo in quella in cui afferma l’assenza di sistemi di bloccaggio dei bancali a tal fine utilizzati e, comunque, la inidoneità di quelli presenti a impedire l’uso indebito del montacarichi da parte dei lavoratori che operavano nella palazzina (v. pagg. 22-23 della sentenza impugnata).
Sotto tale ultimo profilo emerge invero già dalla sentenza di primo grado, e risulta confermata in quella di secondo grado, l’esistenza di una prassi lavorativa connotata dall’indebito utilizzo del montacarichi provvisorio da parte degli operai delle varie ditte impegnate in cantiere. Tale prassi si poneva in contrasto con il piano di sicurezza e con le procedure operative e, secondo la Corte d’appello, andava impedita dagli imputati, se e in quanto investivano doveri di controllo e vigilanza su ciascuno di essi gravanti.
Sull’esistenza di una prassi di tal genere le sentenze (soprattutto quella di primo grado che, come noto, in caso di doppia conforme, vale ad integrare quella di secondo grado) contengono ampia e congrua motivazione, non inficiata dalle contestazioni meramente valutative dei ricorrenti, inidonee a palesare evidenti illogicità o contraddizioni intrinseche nella valutazione dei giudici del merito.
Su tale presupposto l’affermazione della Corte territoriale secondo cui avrebbero dovuto essere apposti fissaggi più stabili e irremovibili, va letta come espressiva del dovere di intervento diretto a impedire tale prassi, ossia come uno dei modi per ottenere il detto risultato (altro potrebbe essere una vigilanza più stringente) e risulta certamente conforme a una corretta interpretazione delle norme in tema di prevenzione degli infortuni del lavoro.
Non può, infatti, dubitarsi che la rilevata carenza dei presidi di sicurezza o il mancato espletamento di attività di vigilanza mirate a prevenire il rischio in questione integri condotta omissiva colposa, ascrivibile a responsabilità del datore di lavoro, con evidente efficacia causale rispetto all’evento, quanto meno per la violazione degli obblighi di ordinaria e comune prudenza imposti dall’art. 2087 cod. civ., che, come noto, obbliga l’imprenditore ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
9. È altresì infondato il secondo motivo del ricorso proposto da S.V. con il quale, come detto, si denuncia vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo, per l’asserita estraneità dell’evento all’area di rischio implicata dagli obblighi imposti al datore di lavoro.
A fronte della situazione di rischio così individuata nella sentenza impugnata è agevole, infatti, cogliere l’infondatezza della tesi del ricorrente secondo cui essa esulava dai doveri di controllo e protezione gravanti sul datore di lavoro o, comunque, questi dovevano considerarsi adempiuti con la predisposizione di un piano di sicurezza che non prevedesse, né tanto meno autorizzasse l’uso del montacarichi, non rispondendo essa ad una corretta interpretazione del contenuto e dello scopo degli obblighi imposti dalle norme infortunistiche a carico del datore di lavoro: prima tra tutte, come testé evienziato, della norma base rappresentata dall’art. 2087 cod. civ. che, come noto, obbliga l’imprenditore «ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Secondo pacifica interpretazione di tale fondamentale disposizione, infatti, il compito del datore di lavoro non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertarsi che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 09-03-1992, n. 2835), attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso pericolose da parte dei dipendenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 27-05-1986, n. 3576) o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706).
Si è in tal senso precisato che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro, o del dirigente cui spetta la sicurezza del lavoro, è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori vi si adeguino e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il responsabile della sicurezza, sia egli o meno l’imprenditore, deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore ed ha perciò il preciso dovere non di limitarsi a assolvere formalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare «sino alla pedanteria», che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706; ma vds. anche, nello stesso senso, Sez. 4, n. 13251del 10/02/2005, Kapelj, Rv. 231156, secondo cui «in tema di infortuni sul lavoro, il compito del datore di lavoro è articolato e comprende l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinate attività, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate e disapplicate, il controllo infine sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione»).
Alla luce di tali univoche indicazioni normative e giurisprudenziali, non può dubitarsi che, lungi dal potersi considerare adempiuto l’obbligo gravante sul datore di lavoro in materia antinfortunistica con la previsione di corretti protocolli operativi, il fatto stesso che questi siano stati non occasionalmente violati vale di per sé a dimostrare un atteggiamento lontano dal contenuto ben più attivo e sostanziale che a tale obbligo occorre assegnare.
Né può rilevare che i lavori oggetto di subappalto non prevedessero l’uso del montacarichi, né interferenza alcuna con i lavori di installazione dell’ascensore.
È noto al riguardo che, in tema di violazione di normativa antinfortunistica in un cantiere edile, per ambiente di lavoro deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l’attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall’attualità dell’attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all’attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (Sez. 4, n. 2989 del 26/02/1992, Pampino, Rv. 189650; v. anche Sez. 4, n. 42501 del 25/06/2013, Dall’Olio, Rv. 258239).
Rimane di conseguenza privo di plausibile fondamento logico il profilo di censura predetto, secondo cui il difetto di coordinamento addebitato al S.V. non avrebbe, nel caso di specie, efficacia causale, non essendo l’incidente correlabile ad una fase della lavorazione per la quale si richiedeva l’uso del montacarichi o la presenza sul luogo del lavoratore. Non può, infatti, dubitarsi che la presenza dei dipendenti della ditta subappaltatrice e la loro comprovata (ma in sé anche ovvia) accessibilità ai vari piani della palazzina in costruzione anche nei momenti di pausa delle lavorazioni (quest’ultima adeguatamente argomentata dai giudici di merito e solo assertivamente contestata dai ricorrenti), valevano ad attivare per il datore di lavoro/committente gli obblighi prevenzionali specificamente previsti dall’art. 7 d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (e ora dall’art. 26 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81).
10. È poi palesemente destituito di fondamento il terzo motivo del ricorso proposto da G.P. e G.S. con il quale si censura come illogica la valutazione del comportamento della vittima, ritenuta in sentenza inidonea a comportare l’interruzione del nesso causale con le condotte ad essi ascritte.
Correttamente, invero, la Corte territoriale ha escluso che tale efficacia interruttiva potesse attribuirsi alla condotta imprudente del lavoratore.
È noto al riguardo che, secondo costante insegnamento di questa Corte, poiché le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, il comportamento anomalo del lavoratore può acquisire valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l’evento, tanto da escludere la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione, solo quando esso sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante e imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore. Tale risultato, invece, non è collegabile al comportamento, ancorché avventato, disattento, imprudente, negligente del lavoratore, posto in essere nel contesto dell’attività lavorativa svolta, non essendo esso, in tal caso, eccezionale ed imprevedibile (v. ex multis Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Millo, Rv. 250710; Sez. 4, n. 15009 del 17/02/2009, Liberali, Rv. 243208; Sez. 4, n. 25532del 23/05/2007, Montanino, Rv. 236991; Sez. 4, n. 25502 del 19/04/2007, Scanu, Rv. 237007; Sez. 4, n. 47146 del 29/09/2005, Riccio, Rv. 233186).
Tanto premesso, del tutto plausibile è l’accertamento che hanno compiuto i giudici di merito circa la non abnormità del comportamento del D.B., posto che, seppure imprudente e pericoloso, esso è certamente riconducibile al novero delle violazioni comportamentali che i lavoratori perpetrano quando ritengono di aver acquisito piena padronanza del luogo di lavoro e degli impianti in esso presenti. In quanto tali esso (come motivatamente affermato nella sentenza ricorsa: v. pag. 31) era ben prevedibile e avrebbe dovuto essere neutralizzato o impedito attraverso gli opportuni accorgimenti e la necessaria vigilanza.
11. Venendo quindi ai motivi del ricorso proposto da P.L., legale rappresentante della società committente dei lavori edili, deve anzitutto rilevarsi l’infondatezza del primo di essi, con il quale si contesta, come detto, la ritenuta inidoneità, a ottenergli l’esonero da ogni responsabilità, della nomina, con espresso atto di conferimento, del responsabile dei lavori e del servizio di prevenzione e protezione nella persona del geom. G.P..
Correttamente invero tale esonero è stato nella specie escluso stante la coincidenza nella stessa persona del ruolo di appaltatore e di responsabile dei lavori per conto del committente, ossia del ruolo di controllato e controllore, tale da svuotare del tutto di significato gli obblighi di controllo posti a carico del committente.
Al riguardo, giova brevemente rammentare che con il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, di attuazione della direttiva 92/57/CEEconcernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili la figura del committente trova esplicito riconoscimento e definizione «il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata»: art. 2, comma 1, lett. b) e ne vengono esplicitati gli obblighi (art. 3).
L’individuazione di tale peculiare figura di garante nasce dall’esigenza, sottesa alla complessiva configurazione del sistema di protezione in materia di sicurezza sul lavoro, di dar rilievo nel particolare contesto dell’attività cantieristica di cui qui si tratta, oltre che alla figura del datore di lavoro, anche a quella del committente, che è il soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta, finanzia l’opera.
Proprio per tal motivo la legge gli attribuisce alcuni obblighi sia nella fase progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre figure di garanti legali.
In particolare, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 494 del 1996 – norma di chiusura la cui violazione è in particolare nella specie contestata all’imputato -costituisce chiaramente il committente quale garante dell’effettività dell’opera di coordinamento posta in capo ai coordinatori per la progettazione e per la esecuzione.
La normativa, peraltro, prevede ragionevolmente la possibilità che il committente non possa o non voglia gestire in proprio tale ruolo.
È quindi possibile che egli designi il responsabile dei lavori che viene definito (art. 2) come il soggetto che può essere incaricato dal committente ai fini della progettazione, dell’esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera, con il conseguente esonero del committente medesimo «dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori» (art. 6, comma 1, d.lgs. n. 494/1996)
Il committente o il responsabile dei lavori (ove dal primo nominato) può poi nominare un coordinatore per la progettazione o per l’esecuzione dei lavori con i compiti previsti rispettivamente dagli artt. 4 e 5 d.lgs. cit., essendo anzi a ciò obbligato nei casi previsti dall’art. 3, comma 3 (cantieri la cui entità presunta è pari o superiore a 200 uomini-giorno; cantieri i cui lavori comportano i rischi particolari elencati nell’allegato II).
Con la precisazione però che, mentre la nomina del responsabile dei lavori esonera il committente «dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori» (art. 6, comma 1, d.lgs. n. 494/1996), la nomina del coordinatore per la progettazione o per l’esecuzione dei lavori esonera il committente (o il responsabile dei lavori dal primo eventualmente nominato) dalle responsabilità connesse ai compiti che per legge ne definiscono il ruolo, con esclusione di quelle correlate alla verifica dell’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 4, comma 1 (redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi) e 5, comma 1, lettera a) (vigilanza sul corretto svolgimento dell’attività di coordinamento e controllo circa l’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento).
Se ne inferisce che il committente, o il responsabile dei lavori in sua vece, ha un peculiare ruolo in tema di alta vigilanza sulla sicurezza del cantiere, che può essere delegato ai coordinatori per la sicurezza, con le limitazioni che si sono accennate.
Tale impostazione della disciplina rende dunque chiaro che, per ciò che attiene alla sicurezza, il committente (o il responsabile dei lavori, ove nominato in sua vece) si trova in un ruolo critico-dialettico nei confronti del datore di lavoro dell’impresa esecutrice che, naturalmente, è a sua volta portatore di plurimi obblighi in tema di sicurezza.
Ciò giustifica il tenore dell’art. 2, lett. f) che, nel definire la figura del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, dispone che si tratti di soggetto diverso dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice. È infatti naturale che venga esclusa la possibilità che soggetto controllante e soggetto controllato si identifichino.
A maggior ragione, però, è da escludere che il sovraordinato ruolo di responsabile dei lavori (cui, come si è prima esposto, può essere assegnato dal committente un ineludibile ruolo di alta vigilanza sulla sicurezza del cantiere), possa essere attribuito al datore di lavoro dell’impresa esecutrice. Con maggiore precisione, è da escludere che la delega in tema di sicurezza possa essere attribuita dal committente ad un responsabile dei lavori individuato nel datore di lavoro dell’impresa esecutrice. Una tale eventualità, infatti – come già condivisibilmente osservato da questa Corte (Sez. 4, n. 1490 del 20/11/2009, dep. 2010, Fumagalli, non mass, sul punto) – «riprodurrebbe ad un più alto livello di responsabilità, l’inconcepibile identificazione tra controllore e soggetto controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere. La conclusione qui enunciata discende, come si vede, in modo obbligato sia dalla logica dell’intreccio degli enunciati testuali; sia dalla conformazione del sistema di protezione che, come si è accennato, esclude la sovrapposizione, in capo allo stesso soggetto, dei ruoli di controllore e di controllato».
12. Né vale sul punto invocare (come fa il ricorrente, con il terzo motivo) l’ignoranza di un tale requisito (ossia della necessaria alterità del responsabile del lavoro rispetto alla persona dell’appaltatore, perché la nomina del responsabile dei lavori possa produrre il richiamato effetto escludente la responsabilità), trattandosi di condizione discendente direttamente dalla legge.
Giova infatti rammentare che, ai sensi dell’art. 5 cod. pen., nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, che ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile», l’ignoranza della legge penale scusa l’autore dell’illecito qualora sia inevitabile, e quindi incolpevole, facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, anche se contravvenzionale.
Come chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte tale condizione deve ritenersi sussistente, per il cittadino comune, specie se non fornito di specifiche competenze, allorché lo stesso abbia assolto al dovere di informazione con la normale ed ordinaria diligenza attraverso la corretta utilizzazione dei mezzi d’informazione, d’indagine e di ricerca che ciascuno ha a disposizione in riferimento al settore di attività cui inerisce la disciplina predisposta alle norme violate (Sez. 1, n. 25912 del 18/12/2003, dep. 2004, Garzanti, Rv. 228235; Sez. 1, n. 10167 del 05/09/1995, Nitti, Rv. 202541).
Tale presupposto non può certo nella specie ravvisarsi, considerata la particolare qualifica del P.L., legale rappresentante di società operante nel campo dell’edilizia, tale da potersi ragionevolmente ipotizzare la possibilità di avvedersi, con l’ordinaria diligenza esigibile da tale profilo professionale, della quanto meno dubbia coerenza, rispetto agli scopi della norma, della detta sovrapposizione dei ruoli di responsabile e appaltatore dei lavori e considerato, comunque, che nessuna allegazione o prova è stata offerta circa le ricerche e le indagini svolte in argomento.
Inconferente è poi certamente al riguardo la circostanza che la prima sentenza della cassazione che, a quanto consta, ha esplicitamente affermato la detta incompatibilità, ossia il citato precedente di Sez. 4, n. 1490 del 2010, sia stata emessa in epoca successiva al fatto, trattandosi di arresto volto a chiarire un contenuto già comunque desumibile dal chiaro dettato normativo, come tale per nulla innovativo, né tanto meno contrastato da precedenti difformi.
Si consideri peraltro che, secondo pacifico indirizzo, anche l’incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma – ipotesi nel caso di specie comunque non ricorrente – non abiliterebbe da sola ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale; al contrario, il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l’incertezza sulla liceità o meno dell’azione stessa, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (v. Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197; Sez. 6, n. 6175 del 27/03/1995, Bando, Rv. 201518).
13. Appare invece fondato, nei sensi appresso precisati, il secondo motivo del ricorso proposto dal P.L., impingente la ritenuta sussistenza dei presupposti perché abbia a ravvisarsi la responsabilità del committente per l’evento de quo.
Al riguardo questa Corte ha invero più volte precisato che, con riferimento ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d’opera, se è vero che – come s’è sopra argomentato – il dovere di sicurezza è riferibile, oltre che al datore di lavoro (di regola l’appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche), anche al committente, con conseguente possibilità, in caso di infortunio, di intrecci di responsabilità, coinvolgenti anche il committente medesimo, è però altrettanto vero che tale principio non può essere applicato automaticamente, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori.
In questa prospettiva, per fondare la responsabilità del committente, non si può prescindere da un attento esame della situazione fattuale, al fine di verificare quale sia stata, in concreto, l’effettiva incidenza della condotta del committente nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori.
A tal fine, vanno in particolare considerati: la specificità dei lavori da eseguire (diverso, in particolare, è il caso in cui il committente dia in appalto lavori relativi ad un complesso aziendale di cui sia titolare, da quello dei lavori di ristrutturazione edilizia di un proprio immobile, come nel caso in esame); i criteri seguiti dal committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); l’ingerenza del committente stesso nell’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto o del contratto di prestazione d’opera; nonché, la percepibilità agevole ed immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo (v. in tal senso, Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Marangio, Rv. 252672; Sez. 4, n. 15081 del 08/04/2010, Cusmano, non mass, sul punto).
Nella concreta fattispecie, dal testo della sentenza impugnata è dato rilevare che è mancato, da parte della Corte territoriale, un approfondito e specifico esame proprio su circostanze fattuali rilevanti ai fini della individuazione di profili di colpa nella condotta del committente, in relazione ai principi di diritto appena ricordati e segnatamente con riferimento alla immediata e agevole percepibilità da parte del committente della situazione di pericolo descritta a fondamento dell’addebito di responsabilità. Carenza quest’ultima, tanto più apprezzabile a fronte della segnalata parziale modifica del fondamento motivazionale della condanna operata dai giudici di secondo grado e consistita nell’individuare quest’ultimo non già nella assenza di presidi di protezione nei varchi di accesso al vano accessori ma nella adozione di dispositivi di bloccaggio degli stessi inidonei a impedirne la rimozione da parte degli operai impegnati in cantiere (circostanza questa che legittima il dubbio di una sua rilevabilità non immediata ma piuttosto richiedente una minuta verifica del tipo di dispositivo adottato) ovvero ancora nella mancanza di una attenta opera di vigilanza sul comportamento osservante dei lavoratori (quest’ultimo presupponente un dovere di costante e minuta presenza in cantiere come detto non imposto al committente e anzi incoerente rispetto ai doveri di alta vigilanza su di esso incombenti).
Sotto i profili predetti la sentenza impugnata si appalesa dunque afflitta da gravi carenze motivazionali che devono pertanto condurre al suo annullamento, con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’appello di Perugia, competente ex art. 623 lett. e) cod. proc. pen., restando assorbiti i rimanenti motivi del ricorso proposto dal P.L. relativi al trattamento sanzionatorio.
14. Sono destituite di fondamento le doglianze svolte dal S.V. (terzo motivo di ricorso) in ordine al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 5 cod. pen..
Il riconoscimento dell’attenuante in parola presuppone, infatti, secondo il testuale e univoco disposto della norma, il concorso del «fatto doloso della persona offesa»; è necessario dunque che la persona offesa preveda e voglia l’evento dannoso come conseguenza della propria cooperazione attiva o passiva al fatto delittuoso dell’agente (Sez. 1, n. 29938 del 14/07/2010, Meneghetti, Rv. 248021); la condotta della persona offesa deve, pertanto, collegarsi sul piano della causalità psicologica alla condotta del soggetto attivo del reato, nel senso che la persona offesa deve agire con dolo ossia deve volere lo stesso evento avuto di mira dall’agente (v. ex multis Sez. 1, n. 14802 del 07/03/2012, Sulger, non mass, sul punto; Sez. 4, n. 17602 del 15/04/2010, Fiorentino, Rv. 247340; Sez. 1, n. 13764 del 11/03/2008, Sorrentino, Rv. 239798; Sez. 5, n. 7570 del 22/04/1999, Traversa, Rv. 213639 Sez. 1, n. 9352 del 09/05/1994, La Vergata, Rv. 199834): condizioni tutte nella specie certamente non ravvisabili e correttamente ritenute insussistenti dalla Corte territoriale sulla base dell’ovvio rilievo che la condotta della vittima, consistita nella imprudente rimozione dei bancali posti a protezione dei varchi d’accesso al vano ascensore, non aveva certo di mira il tragico evento che ne è seguito.
15. Sono altresì infondate le censure svolte dal S.V., con il quarto motivo del ricorso dallo stesso proposto, in punto di mancata concessione delle attenuanti generiche e di quantificazione della pena.
È appena il caso di rammentare al riguardo che, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la determinazione della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo ammette la cd. motivazione implicita (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Dell’Anna, Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo «si ritiene congrua»: v. Sez. 6 , n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, n. 26908 del 22/04/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
Parimenti, con specifico riferimento alla quantificazione della pena, trovasi condivisibilmente precisato che «la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).
In relazione alle esposte coordinate è da escludersi che, nel caso in esame, la quantificazione della pena ovvero il giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee siano frutto di arbitrio o di illogico ragionamento o che, comunque, si espongano a censura di vizio di motivazione, avendo il giudice a quo ampiamente e specificamente motivato su entrambi tali punti facendo in particolare riferimento alla gravità del fatto e all’elevato grado di colpa ravvisabile in capo al prevenuto: il contrario assunto del ricorrente integra censura di merito, a carattere meramente valutativo e oppositivo, come tale inammissibile in questa sede.
16. In ragione delle considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto dei ricorsi proposti da S.V., G.S. e G.P., con la conseguente condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali.
La sentenza impugnata va invece annullata, come detto, limitatamente alle statuizioni relative a P.L., con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte d’appello di Perugia.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi di S.V., G.S. e G.P. che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni relative a P.L.  e rinvia per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di Perugia.
Così deciso il 20/5/2015

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