Ustioni durante la lavorazione della c.d. “tempra in spina”: mancanza di pantaloni coibenti e ignifughi.
Fatto
1. Con sentenza 10.12.2014 la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza di condanna resa dal Tribunale monocratico nei confronti di P.M., vice presidente del Consiglio di Amministrazione della T.T.N. s.p.a., per il reato di lesioni colpose, aggravate dalla violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, ai danni del dipendente Z.A.D..
2. All’imputato era stata contestata la violazione degli artt. 81 comma 1 c.p., 77 comma 3 e comma 4 lett.f) in relazione all’art.87 comma 2 lett.d) D.Lgs.9.4.2008 n.81 (nel testo così sostituito dall’art.56 comma 1 del D.lgs. 3.8.2009, n.106), per avere, in tempi diversi, fornito dispositivi di protezione individuale non conformi ai requisiti previsti dall’art.76 – perché inadeguati al rischio da prevenire (avendo nella specie dotato i lavoratori di cappotti o grembiali di conformazione tale da non coprire interamente gli arti inferiori) – e per non aver reso disponibile nell’unità produttiva informazioni adeguate circa gli altri dispositivi di protezione individuale (nella specie i guanti a manopola), perché corredati di note informative non corrispondenti ai dispositivi presenti in azienda – cosicché lo Z.A.D., impegnato nel processo di lavorazione della c.d. “tempra in spina”, per inserire la chiave meccanica necessaria a calare un anello rovente che usciva dal forno nella adiacente vasca di olio freddo, si sporgeva in avanti verso il pezzo rovente, lo scavalcava con una gamba senza collocare l’apposita passerella, così appoggiando il bordo inferiore del cappotto sul pezzo che prendeva fuoco, cagionandogli lesioni personali gravi, consistite in una ustione di terzo grado alla gamba destra, dalla quale derivava una malattia di durata superiore a quaranta giorni.
L’imputazione indicava un ulteriore profilo di colpa, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 cod.civ. (e specificatamente dell’obbligo per il datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa quelle misure che, sostanzialmente e in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore) nonché delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
3. Nel confermare la pronuncia di condanna del Tribunale di Milano, la Corte territoriale, pur riconoscendo che i lavoratori avevano avuto una utile e indispensabile formazione in ordine al ciclo operativo a cui venivano addetti e che l’evento si era verificato anche per una inottemperanza del lavoratore alle istruzioni ricevute, non avendo lo Z.A.D. utilizzato la pedana meccanica che aveva a disposizione e che quella stessa mattina aveva invece adoperato per una simulazione della prova di lavorazione, individuava uno specifico profilo di colpa dell’imputato per non aver fornito pantaloni coibenti e ignifughi (peraltro espressamente previsti nel DVR della società), che, se indossati, avrebbero senza dubbio evitato l’infortunio e che erano oltremodo necessari dato che gli arti inferiori si avvicinavano comunque a dei pezzi lavorati ad altissima temperatura.
4. Con l’odierno ricorso il difensore del P.M. propone tre distinti motivi di censura.
4.1. In primo luogo deduce erronea applicazione dei principi in materia di responsabilità del datore di lavoro e vizio di motivazione (art.606 lett. b e lett.e c.p.p.), laddove la Corte di merito – pur evidenziando che l’operaio avrebbe dovuto utilizzare la passerella appositamente approntata per evitare ogni rischio e da lui stesso utilizzata nelle prove a freddo relative a quella specifica lavorazione – da un lato non era pervenuta alla conclusione conseguenziale che l’adozione della passerella avrebbe reso non necessari e nemmeno opportuni gli ulteriori dispositivi di protezione individuale, quali i pantaloni ignifughi, e, sotto altro profilo, non aveva giustificato in alcun modo l’assunto secondo cui l’uso di quei pantaloni avrebbe evitato le lesioni subite dal lavoratore. Sostiene il ricorrente sul punto che lo Z.A.D., avendo omesso di utilizzare, come doveva, la passerella, si era sporto verso la spina scavalcando l’anello rovente e divaricando le gambe verso l’alto per oltre un metro e mezzo (circostanza appurata nel corso della istruttoria dibattimentale), compiendo così un movimento che anche con indosso un Pantalone ignifugo avrebbe lasciato scoperta la parte inferiore della gamba e non avrebbe evitato l’esposizione al calore.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art.649 c.p.p. per essere stato già giudicato per lo stesso fatto ed assolto in separato giudizio con sentenza ormai irrevocabile e definitiva, circostanza che aveva formato oggetto di specifico motivo di appello e su cui la Corte non si era pronunciata.
4.3. Come ultimo motivo si duole del fatto che la Corte di merito avesse disatteso, senza alcuna motivazione, sia la richiesta di applicazione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, con conseguente riduzione della pena, sia quella di conversione della pena detentiva in quella pecuniaria ex art.53 L.n.689/81.
Diritto
5. Il ricorso merita accoglimento per le seguenti considerazioni.
5.1. Richiamato in questa sede quanto esposto in narrativa in merito al capo di imputazione, si osserva che a carico del P.M. erano stati individuati vari profili di colpa: una colpa generica, la violazione dell’art.2087 cod.civ. che attiene alla tutela delle condizioni di lavoro ed impone al datore di lavoro un obbligo generico di prevenzione, ed una violazione specifica consistita nell’aver fornito dispositivi di protezione individuale inadeguati al rischio da prevenire (come meglio precisato al capo 2 dell’imputazione).
5.2. Nella sentenza del Tribunale di Milano, alla cui motivazione la Corte di merito fa rinvio riportandone il testo, si legge che “a P.M. è ascrivibile la violazione dell’obbligo, previsto dall’art.76 D.Lgs.81/2008, di dotare i lavoratori di dispositivi di protezione adeguati (mentre) è emerso come Z.A.D., al momento dell’Infortunio, indossasse pantaloni di cotone, dei guanti ignifughi e un grembiule ignifugo che lasciava scoperte le gambe e riparava il petto solo parzialmente” e non i “pantaloni coibenti ignifughi (peraltro espressamente previsti nel DVR della società) che avrebbero senza dubbio totalmente evitato l’infortunio”.
Né il Tribunale né la Corte territoriale, benché investita con specifico motivo di gravame, hanno però risposto al rilievo dell’imputato, costituente oggi il secondo motivo di ricorso, che ha documentato con produzione effettuata alla udienza del 22.1.2014 e riscontrata a verbale, di aver subito altro processo per gli stessi fatti contestati a titolo di colpa per l’avvenuto infortunio, definito con sentenza a lui favorevole (sent.Trib.MI 14.10.2013, n.11056).
La doglianza non è stata esaminata dai giudici di merito.
5.3. Nessuna argomentazione, del pari, è stata svolta sul profilo di colpa di cui all’art.2087 cod.civ. che impone, come è noto, al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio, e gli fa obbligo altresì di sorvegliare continuamente sull’adozione effettiva di tali misure da parte dei lavoratori, atteso che la disposizione in esame lo costituisce garante della incolumità fisica dei prestatori di lavoro (principi ripetutamente affermati da questa Corte, da ultimo ex multis Sez.IV, 29.1.2015, n.4361; 27.1.2015, n.3787).
Ciò si evidenzia perché l’unico profilo di colpa esaminato dai giudici di merito è appunto quello in relazione al quale si assume già intervenuta definitiva decisione in altra sede.
5.4. Di qui l’annullamento della impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per nuovo esame.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 novembre 2015