Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 6, 04 novembre 2015, n. 44589

Mobbing – dipendente vessato dal cognato e dal suocero, suoi datori di lavoro.


Presidente: Conti
Relatore: Villoni

Fatto

1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’Appello di Torino, a conferma di quella emessa dal locale Tribunale in data 03/04/2013, ha confermato la condanna di C.L. e C. C. alla pena di otto mesi di reclusione (condizionalmente sospesa per il secondo) in ordine al reato di cui agli artt. 110, 572 cod. pen., loro contestato in relazione ad una lunga serie di atteggiamenti e condotte vessatorie perpetrate in danno di M.G., già dipendente della Meccanica C. srl e cognato del primo e genero del secondo imputato, quale coniuge di C. M. da cui si era successivamente separato.
Rispondendo a specifica doglianza degli appellanti, la Corte territoriale ha preso nuovamente in esame le dichiarazioni rese dai testimoni a discarico, ritenendo che le stesse non fossero riuscite sovvertire le opposte risultanze probatorie fondate sulle deposizioni dei testi d’accusa e osservando, quanto alla qualificazione giuridica dei fatti, che la stessa difesa aveva invocato l’applicazione della giurisprudenza che reputa applicabile il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. ai maltrattamenti commessi all’interno di aziende di natura parafamiliare, quale innegabilmente era la Meccanica C. srl.
2. Avverso la sentenza hanno proposto impugnazione gli imputati, che si dolgono dei fatto che il giudice d’appello, come quello di primo grado, abbia attribuito incondizionata attendibilità alle dichiarazioni della persona offesa M. e del teste DV., sebbene contraddette da quelle dei testimoni indicati dalla difesa; deducono, inoltre, l’assoluta inverosimiglianza della versione del M. e la mancata assunzione di prova decisiva sul tema della ‘non para­familiarità’ dell’azienda C.; deducono, inoltre, vizio di motivazione riguardo al mancato riconoscimento dell’attenuante comune di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. e di quelle generiche, determinante l’eccessivo rigore della pena inflitta; il solo C. C. deduce, infine, vio­lazione di legge riguardo alla mancata concessione per la seconda volta del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Diritto

1. I ricorsi sono infondati e come tali vanno rigettati.
2. Dal momento che le impugnazioni hanno investito il tema della parafamiliarità dei rapporto di lavoro (secondo motivo di censura), questo Collegio intende preliminarmente riba­dire la perdurante validità dell’orientamento interpretativo espresso dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione secondo cui il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo all’indefettibile condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona alla autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 6, sent. n.24057 del 11/04/2014, Marcucci, Rv. 260066).
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto mobbing) possono, pertanto, integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esattamente alle stesse condizioni, quando cioè il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la po­sizione di supremazia (Sez. 6, sent. n. 24642 del 19/03/2014, P.G. in proc. L G, Rv. 260063 e Sez. 6, sent. n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368 in fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di dipendenti e/o funzionari comunali; Sez. 6, sent. n.28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976 in cui parimenti è stata esclusa la concreta configurabilità del reato; Sez. 6, sent. n. 13088 del 05/03/2014, B e altro, Rv. 259591 in fattispecie di esclusione del reato nel contesto di un’articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati; Sez. 6, sent. n. 16094 dei 11/04/2012, I., Rv. 252609 in fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione a condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente).
A dispetto della riaffermazione del principio dell’astratta configurabilità del reato nelle condi­zioni date e a conferma della frequente affermazione d’inapplicabilità nelle fattispecie consi­derate, va, infatti, precisato che la figura di reato di cui all’art. 572 cod. pen. non costituisce la tutela penale dei cd. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc.), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio.
La vicenda oggetto della presente verifica giudiziale appare, tuttavia, connotata da aspetti dei tutto peculiari, che abilitano all’utilizzo del termine ‘panfamiliare’, come il più idoneo a defi­nire la specificità dei rapporti instauratisi tra le parti.
Si ricava, infatti, dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado richiamata, che la parte offesa M.G. era stata assunta nell’aprile del 2002 nell’azienda di piccole dimensioni (inferiore a quindici dipendenti) e a conduzione familiare Meccanica C. s.r.l., gestita congiuntamente da C. C. e dal figlio C.L., con una piccola quota societaria detenuta fino al 2011 dal socio lavoratore, Magliano Bruno.
Quali che siano state le condizioni di lavoro iniziali, costituisce dato probatorio indiscusso che nel giugno – luglio 2002 il M. aveva avviato una relazione con C. M., figlia di C. e sorella di Luca, avviando con lei una convivenza sfociata nel matrimonio nel 2003, allietato dalla nascita di un bimbo in quello stesso anno e di un altro nel 2004.
Paradossalmente rispetto all’ingresso nella famiglia del datore di lavoro, le condizioni lavo­rative dei M. erano non già migliorate bensì fin da subito peggiorate ed in particolare il trattamento riservato al lavoratore divenuto affine era risultato discriminatorio rispetto ai colleghi di lavoro, venendo il M. fatto segno di continui ed esagerati rimproveri, di pubblica denigrazione, di limitazioni nei permessi lavorativi e nelle pause – pranzo, di aggravamenti quanto all’inizio e alla durata dell’orario lavorativo, di ripetute iniziative disciplinari, tant’è che i colleghi di lavoro avevano inizialmente pensato che esso servisse a farne un capro espiatorio per indurli a confidarsi con lui e consentire così ai datori di lavoro di conoscerne le segrete convinzioni.
Va, inoltre, evidenziato che le vicende dei rapporto coniugale, progressivamente deterio­ratosi tra il M. e la moglie, hanno avuto immediato riscontro nella condizione lavorativa dei primo quale dipendente.
Quando, infatti, nel 2007 aveva appreso dell’intenzione della moglie di abbandonarlo, il M. aveva minacciato di lanciarsi nel vuoto e non già da un balcone dell’abitazione coniugale, bensì da una gru aziendale; inoltre, a seguito di un infortunio sul lavoro, proprio dal non aver voluto cedere alle insistenze dei suocero e del cognato di `chiudere’ la pratica presso l’INAIL e di tornare subito in servizio, era derivato un deterioramento della situazione coniugale, talché nel settembre del 2007 era stato allontanato dalla casa familiare e nel febbraio 2008 era inter­venuta l’omologa della separazione dalla moglie; da quel momento si erano poi susseguite diverse iniziative disciplinari nei suoi confronti, fino al licenziamento per giusta causa avvenuto nel 2010.
Come, dunque, chiaramente si desume dalla parabola lavorativa della parte offesa ricostruita dai giudici di primo e secondo grado, la fattispecie appare connotata da un’inestricabile commi­stione tra aspetti di natura lavorativa e familiare, tale da implicare immediate ricadute delle vicende registratesi in una sfera nell’altra, a partire dal mutamento in senso peggiorativo delle condizioni di lavoro conseguente al matrimonio, per seguire con il deterioramento dei rapporti coniugali per effetto dell’atteggiamento ritenuto non collaborativo dopo l’infortunio sul lavoro e finire con l’ulteriore peggioramento delle relazioni lavorative sfociato nel licenziamento a seguito della separazione dal coniuge e dell’estromissione dalla casa familiare.
Si può, pertanto, a ragione concludere che, pur non ricorrendo le condizioni formali di sussi­stenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ., il rapporto di lavoro imposto al M. fosse di natura più che parafamiliare e come anticipato addirittura panfamiliare, come tale pienamente compatibile con la ritenuta applicabilità dell’art. 572 cod. pen.
3. Appaiono parimenti destituite di fondamento le restanti doglianze.
Quella di cui primo motivo di ricorso attiene palesemente alla valutazione dei materiale probatorio e in particolare delle fonti testimoniali, rappresentate dalla stessa parte offesa M. e di un testimone d’accusa (DV.), di cui la Corte territoriale ha congruamente motivato l’attendibilità e la credibilità, spiegando al contempo la minor valenza dimostrativa delle prove dichiarative a discarico, connotate da profili di interesse proprio ed a ben vedere
neppure contrastanti in senso assoluto con i fatti ricostruiti e ritenuti al primo giudice per affermare la sussistenza del reato.
Riguarda, invece, l’ambito di discrezionalità proprio del giudice di merito nella determinazione del trattamento sanzionatorio la doglianza riferita al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. cui, peraltro, la decisione impugnata dedica con­grua motivazione (uit. pag.); mentre palesemente infondata ed anzi incomprensibile appare quella riferita alle attenuanti generiche, che la Corte territoriale ricorda essere state già riconosciute in primo grado nella massima estensione.
Palesemente infondato è, infine, il motivo di ricorso riguardante la mancata concessione per la seconda volta dei beneficio della sospensione condizionale della pena in favore del ricorrente C. C., avendo la Corte territoriale congruamente argomentato che, anche a prescin­dere dall’astratta concedibilità ai sensi dell’art. 164, comma 4 cod. pen., non poteva essere stilata una nuova prognosi favorevole a causa di intermedie condanne per fatti connessi allo esercizio dell’attività imprenditoriale (inquinamento, igiene sul lavoro), oltre al fatto che l’impu­tato non aveva manifestato la volontà di non opporsi (art. 165, comma 2 cod. pen.) all’even­tuale ammissione a prestare attività lavorativa non retribuita (LSU), costituente requisito per l’imposizione di uno degli obblighi al cui adempimento deve essere necessariamente subor­dinato il beneficio ove concesso per la seconda volta (Sez. 5, sent. n. 7406 del 27/09/2013, Mellone, Rv. 259517; Sez. 2, sent. n. 38783 del 26/10/2006, Sorce, Rv. 235381).
4. Al rigetto dei ricorsi consegue, come per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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