Cassazione Penale, Sez. 6, 27 novembre 2014, n. 49545

Dipendente di una struttura ospedaliera e mobbing: Maltrattamenti in famiglia.

> leggi anche l’articolo di commento: Mobbing e maltrattamenti in famiglia, dell’avv. Claudio Ramelli

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Fatto

1. Con l’ordinanza impugnata, il GIP del Tribunale di Ristretta disponeva l’archiviazione del procedimento instauratosi su denunzia di P.G. nei confronti di C.E.A.M., P.G., e P.M. con l’accusa di averla sottoposta a discriminazione (mobbing) sul posto di lavoro all’interno dell’Unità Operativa Materno – Infantile dell’Ospedale di Mistretta, discriminazione tradottasi, secondo la prospettazione della P. nel denegarle una richiesta di ferie nel mese di febbraio 2010 e nell’istigare contemporaneamente dei colleghi di reparto a presentare analoga istanza, per poi accoglierla con il dichiarato intento per tale via di offenderla.

In accoglimento di conforme richiesta del P.M., il GIP dichiarava de plano inammissibile l’opposizione proposta dalla denunziante ai sensi dell’art. 410 cod. proc. pen., decretando l’archiviazione del procedimento a causa della ritenuta insussistenza dell’addebito, motivata sulla base di una argomentata valutazione delle risultanze delle indagini e in particolare delle dichiarazioni rese da diverse persone informate ed escusse in merito ai fatti.

2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la … deducendo violazione di legge per contrasto con gli artt. 409 e 410 cod. proc. pen. determinatasi a motivo dell’intervenuta definizione del procedimento in assenza di contraddittorio, reso invece necessario dalla rituale presentazione dell’atto di opposizione.

La ricorrente deduce in particolare la circostanza che l’archiviazione è stata pronunziata all’esito di una valutazione piena del merito dell’accusa e previa affermazione della mancata indicazione di possibili indagini suppletive da parte della parte lesa, la quale aveva invece ritualmente chiesto di procedere ad acquisizioni documentali e all’audizione di persone diverse da quelle già ascoltate, a chiarimento di fatti ulteriori rispetto a quelli su cui i dichiaranti si erano soffermati.

Il Procuratore Generale, nelle rassegnate note scritte, ha condiviso la tesi della ricorrente, osservando come il provvedimento impugnato, oltre ad asserire erroneamente la mancata indicazione di investigazioni suppletive, risulta interamente dedicato al tema dell’infondatezza della notizia di reato all’esito delle indagini espletate, ritenute ampie ed esaurienti ed in prospettiva insensibili rispetto a quelle ulteriori sollecitate dalla parte offesa.

Diritto

3. Il ricorso risulta manifestamente infondato e va pertanto dichiarato inammissibile.

Questo Collegio aderisce all’orientamento interpretativo secondo cui in presenza di opposizione della persona offesa, il GIP può disporre l’archiviazione con provvedimento de plano alla doppia condizione che sussistano l’infondatezza della notizia di reato e l’inammissibilità dell’opposizione dovuta o alla mancata indicazione dell’oggetto dell’investigazione suppletiva e dei relativi elementi di prova o al fatto che i nuovi atti di indagine richiesti non hanno pertinenza e specificità ai fini dell’accertamento penale (Cass. Sez. 2, n. 158 del 27/11/2012, P.O. in proc. Scandurra, Rv. 254062; Sez. 4, n. 167 del 24/11/2010, P.O. in proc. Ortu, Rv. 249236) e inoltre che quando lo stesso GIP ritenga irrilevante la proposta di investigazione suppletiva dell’opponente – non già sotto il profilo prognostico del suo possibile esito ma sub specie del difetto di incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari, in quanto preordinata ad acquisire elementi già noti – il giudice di legittimità non può sindacare la valutazione di merito d’infondatezza della notizia di reato svolta dal giudice delle indagini.

Ne deriva che la violazione del diritto al contraddittorio – che legittima il ricorso della persona offesa in sede di legittimità – può essere ritenuta sussistente solo nel caso in cui il ricorso non concerna la ritenuta infondatezza della notizia di reato (Sez. 5, n. 11524 del 08/02/2007, P.O. in proc. Giovanardi, Rv. 236520).

Nel caso in esame, in cui il GIP di Mistretta ha ritenuto non configurabili in concreto i maltrattamenti e la violenza privata (traduzione in termini penalistici del denunziato mobbing in ambiente lavorativo), deve comunque rilevarsi che mancano gli indefettibili elementi costitutivi di entrambi i reati ipotizzati.

Ci si riferisce, in particolare, al carattere parafamiliare delle condizioni lavorative ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 572 cod. pen. ed agli elementi costitutivi della violenza o della minaccia ai fini della possibilità di ravvisare quello di cui all’art. 610 cod. pen.

Sotto il primo aspetto, costituisce principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità ed in particolare di questa Sezione che il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. può certamente trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo, a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità (Cass. Sez. 6, sent. n. 12517 del 28/03/ 2012, R. e altro, Rv. 252607 e conf.)

Ed ancora, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368 che ha escluso la configurabilità del reato in fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale; Sez. 6, sent. n. 685 del 22/09/2010, P.C. in proc. C., Rv. 249186 che ha escluso la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal capo squadra nei confronti di un operaio; Sez. 6, sent. n. 26594 del 06/02/2009, P.G. in proc. P. e altro, Rv. 244457 che ha escluso la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente ad opera di un dirigente di una azienda di grandi dimensioni).

Tanto premesso, ancorché le dimensioni del presidio ospedaliero di Mistretta, teatro della condotta denunziata, non siano certamente paragonabili a quello di un grande centro urbano, è tuttavia da escludere – ed il profilo non risulta comunque dedotto – che il carattere di struttura pubblica possa prevedere nel suo abito forme di subordinazione lavorativa del tipo di quelle richiamate dalla citate pronunzie.

Quanto all’ipotesi di reato di cui all’art. 610 cod. pen., la condotta che Io avrebbe integrato (v. saprà) è di natura tale da escludere all’evidenza la relativa integrazione.

Sotto il profilo dell’invocata integrazione probatoria, non si comprende, infine, quale apporto conoscitivo ulteriore avrebbero potuto fornire le investigazioni suppletive sollecitate dall’opponente – consistenti nell’acquisizione di elementi documentali e di sommarie informazioni da parte di altre persone informate sui fatti, tanto i primi quanto le seconde non meglio specificati – ai fini della ricostruzione di una vicenda, la cui rilevanza sul piano penalistico deve ritenersi, per quanto anzidetto, pacificamente insussistente.

4. Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si stima equo determinare nell’importo di € 500,00 (cinquecento).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 500,00 in favore della cassa delle ammende.


Riferimenti normativi:

Cod. Pen. art. 572

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