Cassazione Penale, Sez. 7, 29 settembre 2016, n. 40643

Violazioni in materia di sicurezza. Antincendio, illuminazione di sicurezza, interruttore di emergenza per l’impianto elettrico, segnaletica di sicurezza, piano di emergenza e uscite di sicurezza.


Presidente: GRILLO RENATO
Relatore: DI NICOLA VITO
Data Udienza: 15/07/2016

Fatto

1. E.G. ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Pistoia lo ha condannato alla pena di € 2000 di ammenda per il reato (capo a) previsto dall’articolo 46 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 perché, nella sua qualità di titolare della ditta “La casa della penna” e quindi quale datore di lavoro, ometteva di richiedere il preventivo parere sul progetto di conformità antincendio; ometteva di rendere funzionante l’impianto di illuminazione di sicurezza; ometteva di installare all’esterno del locale ed in posizione facilmente raggiungibile e segnalata un interruttore di emergenza per disattivare l’impianto elettrico; ometteva di installare la segnaletica di sicurezza; ometteva di redigere il piano di emergenza ed evacuazione; ometteva di formare il registro dei controlli e presidi antincendio nonché del reato (capo b) previsto dall’articolo 64, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 81 del 2008 perché, nella suddetta qualità, ometteva di installare idonea uscita di sicurezza per l’esodo dei lavoratori in caso di emergenza atteso che l’unica porta presente adibita a tale scopo non aveva i requisiti previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza il ricorrente articola, tramite il difensore, due motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con essi il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione sul criterio applicativo della legge con particolare riferimento alla dimensione del locale, sul rilievo che il tribunale avrebbe contraddittoriamente accordato la prevalenza alla versione resa dall’ingegnere G.G. sulla metratura del locale, rispetto a quanto riferito dal teste di difesa secondo il quale la superficie del negozio era inferiore ai 400 metri , omettendo peraltro di motivare sull’attività della ditta e se quest’ultima avesse incarico lavoratori dipendenti (primo motivo); deduce poi la violazione e l’erronea applicazione della legislazione antincendio perché, pur supponendo dimostrata una dimensione dei locali superiori ai 400 mq, non sarebbe più richiesto dalla normativa vigente il parere di conformità preventivo (ex certificato prevenzione incendi), non sarebbe stata dimostrata in quale categoria rientri l’attività svolta dall’imputato non ha tenuto conto che tra gli obblighi del datore di lavoro non era incluso quello di nel registro dei controlli presidi antincendio e, infine, il tribunale, ritenere i reati unificati dal vincolo della continuazione, masticato i conteggi effettuati per la determinazione della pena (secondo motivo).

Diritto

1. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
2. I motivi di impugnazione, essendo tra loro connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
Il tribunale, con accertamento di fatto logicamente ed adeguatamente motivato e pertanto è insuscettibile di essere sindacato in sede di giudizio di legittimità, ha accertato che, a seguito di un sopralluogo eseguito presso “La casa della penna”, sono emerse alcune inosservanza alla normativa che disciplina la sicurezza degli ambienti di lavoro. In particolare, a seguito delle verifiche effettuate, è emerso che:
1) l’imputato aveva omesso di chiedere il preventivo parere sul progetto di conformità antincendio;
2) non era funzionante l’impianto di illuminazione di sicurezza;
3) non era stato installato all’esterno del locale, l’interruttore di emergenza per disattivare l’impianto elettrico;
4) non era stata installata la segnaletica di sicurezza in gran parte dell’attività;
5) non era stato predisposto il piano di emergenza ed evacuazione;
6) non era stato formato il registro dei controlli dei presidi antincendio;
7) non era stata installata idonea uscita di sicurezza per l’esito dei lavoratori in caso di emergenza.
Siffatte violazioni sono state correttamente sussunte nelle fattispecie incriminatrici contestate all’imputato.
Ciò posto, quanto alla superficie dei locali di lavoro, il tribunale ha fondato il proprio convincimento sulla base delle testimonianze di coloro che effettuarono e eseguirono le misurazioni dei locali, accertando che la superficie era ampiamente superiore e 400 m2.
Viceversa, non è stata accordata rilevanza alla deposizione del teste di difesa (L.T.) perché il testimone aveva fatto esclusivamente riferimento alla circostanza che, a suo parere, la superficie del negozio non sarebbe stata superiore ai 400 m, senza tuttavia aver misurato l’intera superficie del negozio e del laboratorio, con la conseguenza che detta testimonianza è stata motivatamente ritenuta non attendibile.
Peraltro, l’imputato, anche a seguito di un secondo sopralluogo, non aveva, come è emerso dal testimoniale raccolto nel corso del giudizio, ottemperato alle prescrizioni indicate dagli operanti per regolarizzare la situazione di contrasto alla normativa di prevenzione infortunistica nel luogo di lavoro, conseguendo da ciò la manifesta infondatezza delle doglianze mosse nei confronti dell’impugnata sentenza, la quale neppure merita la censura che le è stata mossa in relazione al mancato calcolo degli aumenti stabiliti per la ritenuta continuazione delle violazioni, posto che, in tema di determinazione della pena nel reato continuato, non sussiste obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, mentre alcuna censura è stata sollevata dal ricorrente in ordine alla determinazione della pena base.
3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 15/07/2016

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