Cassazione Penale, sez. IV, 22 novembre 2004, n. 45068

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. D’URSO Giovanni – Presidente – del 30/03/2004
Dott. OLIVIERI Renato – Consigliere – SENTENZA
Dott. BATTISTI Massimo – Consigliere – N. 4801
Dott. CHILIBERTI Alfonso – Consigliere – REGISTRO GENERALE
Dott. VISCONTI Sergio – Consigliere – N. 022580/2003
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) AE;
avverso la SENTENZA del 31/03/2003 CORTE APPELLO DI TORINO;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. BATTISTI MARIANO;
udito il Procuratore Generale in persona della Dott.ssa Elisabetta Cesqui che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore Avv. GPZ, che ha concluso per l’accoglimento del rinvio e, in subordine, la costituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria della specie corrispondente, in applicazione dell’art. 5,comma 3, prima e seconda parte, C. 12/06/2002, n. 134 e la revoca del beneficio della sospensione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La corte di appello di Torino, con sentenza del 31 marzo 2003, confermava la sentenza, in data 7 novembre 2000, del tribunale di Torino, il quale aveva affermato la penale responsabilità, condannandolo alle pene di legge, di EA – nella sua qualità di direttore dello stabilimento, sito in Rosta, della s.p.a. Lipitalia – per il reato di omicidio colposo in danno di PS.

La Corte di merito accertava che, il 12 febbraio 1997, in Rosta, nel corso della esecuzione dei lavori di ripristino delle forme originali di un silos, utilizzato dalla L per lo stoccaggio della farina di sangue prodotta dalla stessa società – lavori dati in appalto alla società G impianti, della quale lo S era dipendente – lo S era rimasto schiacciato, riportando lesioni che ne avrebbero determinato il decesso, tra la parete del silos ed una putrella in ferro, precedentemente saldata.

SS, titolare della G Impianti e datore di lavoro dello S, mentre, insieme con quest’ultimo, aveva appena iniziato a saldare una staffa in ferro, ad un’altezza di circa 4 metri sulla parete del silos, aveva accidentalmente forato, con l’elettrodo, la parete di lamiera, innescando, così, con l’arco elettrico prodotto dalla saldatrice, la polvere presente nel silos e determinando l’esplosione, con conseguente deformazione delle pareti dell’impianto e, appunto, con lo schiacciamento dello stesso S che riportava shock emorragico da lacerazione della vena iliaca destra. 2 – La corte, premesso che era incontroverso che l’A non sapeva che le polveri di sangue fossero potenzialmente esplosive, sicché era certo che non ne avesse informato il S, osservava che il thema decidendum stava nell’accertare se, come aveva accertato il tribunale, l’imputato fosse da ritenere in colpa per non essere stato consapevole che le farine di sangue potevano esplodere. La corte, nel risolvere il thema, rilevava che non potevano esservi dubbi sulla colpa dell’Aloi.

a- “la letteratura scientifica – notava la corte – era ed è ampiamente a conoscenza del rischio di esplosione delle farine vegetali e tutta la normativa, fin dal DPR 547/1955, si occupa della pericolosità delle polvere infiammabili; e, se è vero che la letteratura in questione non ricorda al proposito le farine animali – se non la sola farina di latte -, ciò non significa che ne escluda in positivo la pericolosità di scoppio, sicché i datore di lavoro – o, per lui, l’A – doveva porsi il relativo problema”. “Nè può obiettarsi – aggiungeva la corte – che il documento di valutazione del rischio predisposto dalla L in ossequio alla normativa relativa – art. 4 del D.Lgs. 626/1994 – non aveva evidenziato quel pericolo specifico, ché tale documento, la cui paternità è riconducibile al datore di lavoro, che si può al proposito avvalere di consulenti – come aveva fatto la L – e che, dunque, risponde per le manchevolezze del documento stesso, non esimeva l’imputato dall’onere di affrontare in tale sede o in altra occasione lo specifico tema del pericolo di esplosione della farina di sangue, eventualmente delegando un accertamento apposito allo scopo”.

b- “Era ravvisabile, peraltro – così, ancora, la corte – un ulteriore specifico elemento che provava documentalmente la responsabilità dell’imputato, essendo risultato che l’A era stato messo sull’avviso della esplosività della farina di sangue, essendogli stata data, di tale pericolo, autorevole indicazione, donde il suo dovere di tenerne debito conto per informarne i terzi verso cui era tenuto all’informazione”.

“Nel certificato di prevenzione incendi, rilasciato dai vigili del Fuoco, il 19 novembre 1996, alla voce “sostanze che presentano pericolo d’incendio o scoppio” era stata, infatti, apposta l’indicazione n. 10 silos verticali esterni della capacità geometrica di 80 mc. Cadauno, contenenti farine proteiche”. “Tale annotazione – puntualizzava la sentenza – rapportava espressamente il pericolo di scoppio alle farine proteiche, fra le quali vi era certamente la farina di sangue e, dunque, forniva avviso espresso che la farina in questione era in condizione di esplodere.” “Nè poteva opporsi che il silos i cui erano avvenuti l’esplosione e l’infortunio era posto all’interno dello stabilimento, essendo di tutta evidenza che il pericolo di esplosione era chiaramente collegato al contenuto del silos e non alla loro collocazione e, in ogni caso, dato e non concesso che il certificato si riferisse unicamente alle polveri nei silos collocati all’esterno, quella informazione avrebbe dovuto imporre all’A ben altra prudenza”. 3 – Il difensore ricorre per Cassazione on due motivi.

1^- denuncia, con il primo, “violazione dell’art. 589 C.P., mancanza e manifesta illogicità della motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato in relazione all’affermazione della responsabilità”.

Deduce che “non v’è chi non veda la palese illogicità di una argomentazione, che pretende di porre in capo al datore di lavoro l’obbligo e la conseguente responsabilità di prevedere rischi specifici che gli esperti della materia non avevano valutato, ne segnalato”.

Deduce, inoltre, quanto al certificato dei vigili del Fuoco, che “l’illogicità dell’argomentazione della corte sul punto appare, ancora una volta, manifesta, dal momento che dà per presupposto quanto non dimostrato, ovverosia un errore gravissimo dei vigili del Fuoco nella mancata indicazione, come fonte di pericolo, dal silos presso il quale avvenne l’infortunio”.

2^- Denuncia, con il secondo motivo, “violazione dell’art. 589 C. P., mancanza manifesta illogicità della motivazione in relazione all’affermato nesso causale tra l’addebito di colpa e l’evento”;

deducendo che il “S aveva dichiarato di essere del tutto consapevole che l’intervento di manutenzione, nel corso del quale si era verificato l’infortunio, avrebbe dovuto essere eseguito a lavorazione interrotta”, sicché non poteva non riconoscersi che il Santoro, intervenendo a lavorazione – immissione della polvere – in corso, aveva posto in essere una condotta che si era risolta in causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento”.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Il Primo motivo è infondato, anche se il ruolo dell’A, l’essere stato direttore dello stabilimento allorché si è verificato il sinistro, impone alcune puntualizzazioni. a- Nel caso di imputazione è stato contestato all’A di avere violato la norma dell’art. 7, comma 1 , lett. b), del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e la norma dell’art. 250 DPR 547/1955. Dispone la prima – la seconda sarà presa in considerazione in appresso – che il “datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva, a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi fornisce agli stessi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati a operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”. Ebbene, quest’obbligo di informazione altro non è che la logica proiezione della norma dell’art. 4 dello stesso D.Lgs, la quale stabilisce, nel comma 1, che “il datore di lavoro, in relazione alla natura dell’attività ovvero dell’unità produttiva, valuta tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, nel comma 2, che “all’esito della valutazione di cui al comma 1, il datore di lavoro elabora un documento contenente:a)una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella quale sono specificati i criteri adottati per la valutazione della stessa, e, b), il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”.

La dottrina, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. in questione, nel misurarsi con la definizione di datore di lavoro, che si legge all’art. 2, lett. b), del decreto, ha posto in evidenza, tra l’altro, che, “se ci si riporta esattamente al contenuto di quella definizione – è datore di lavoro il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ai sensi della lettera i9 (stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o di servizi dotata di autonomia finanziaria o tecnico-funzionale) in quanto titolare di poteri decisionali e di spesa – ci si accorge subito che, in tanto un soggetto titolare dei poteri decisionali e di spesa potrà assumere, nell’ambito della medesima impresa, la qualifica, a fini prevenzionali, di datore di lavoro, in aggiunta a quella attribuita al titolare del rapporto di lavoro con i dipendenti, in quanto la filiale di essa o una sua separata unità produttiva godano di effettiva autonomia finanziaria e tecnico-funzionale”. “Non basta, quindi, – si è aggiunto – che il dirigente responsabile di tali dependance aziendali sia provvisto, come un qualsiasi altro delegato, di un’autonomia decisionale e di spesa proporzionata all’entità dell’incarico ricevuto, ma sarà necessario, perché possa assumere altresì la veste di datore di lavoro, che l’organismo da lui diretto, pur restando un’emanazione della stessa impresa, abbia una sua fisionomia distinta, presenti un proprio bilancio e possa deliberare, in condizioni di relativa indipendenza, il riparto delle risorse disponibili, operando così le scelte organizzative ritenute più confacenti alle proprie caratteristiche funzionali e produttive”.

Se il datore di lavoro è quello definito dall’art. 2, lett. b), e se questo datore di lavoro ha, tra gli altri, gli oneri – non delegabili, come dispone l’art. 1, comma 4-ter, introdotto dal D.Lgs. 242 del 19 marzo 1996 – di valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e di elaborare una relazione su quella valutazione, colui che, nell’ambito di un’impresa, ha la responsabilità di un’unità di un’impresa, ha la responsabilità di un’unità produttiva in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa, è datore di lavoro, anche ai fini dell’art. 4, commi 1 e 2, – solo se è responsabile di un organismo dotato di quella particolare, rilevante, autonomia dianzi sottolineata, che deve essere espressamente prevista negli atti della impresa o società. Ciò premesso, sia la sentenza sia i motivi di ricorso non pare pongano in dubbio – anche se alcune affermazioni della sentenza possono apparire equivoche (e anche per questa ragione si sono fatte le precedenti precisazioni) – che l’A fosse datore di lavoro nel senso dianzi precisato; e, se così è, è innegabile che l’imputato avesse sia l’obbligo di provvedere alla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, sia il distinto obbligo di informarne la G Impianti.

Si obietta, però, nel motivo che l’incarico per la valutazione del rischio era stato conferito a tecnici competenti, i quali nulla avevano osservato sul rischio di esplosione delle polveri di farina di sangue.

b- Volendo dare per certo che quella valutazione sia stata eseguita con il rigore voluto dalla legge – e opportunamente ricordando che, secondo autorevole dottrina, “non è pensabile che, in un Paese democratico come il nostro, retto da una costituzione come la nostra, beni così importanti come l’integrità fisica e la salute dei lavoratori, messi a rischio proprio dallo sviluppo tecnologico che caratterizza l’attività di impresa negli ultimi decenni, siano affidati alle valutazioni, ai programmi e ai controlli elaborati dalla singola società, dalla singola impresa”, non essendovi dubbi, “per gli studiosi di valutazione del rischio, che la valutazione sul livello di esposizione al rischio accettabile (che presuppone conoscenze ad alto livello in moltissimi settori e che, anche per questo, ha o può avere costi elevatissimi) spetti ai responsabili di decisione politiche, nel senso che il processo di gestione del rischio spetta a chi è preposto a stabilire norme e leggi” deve porsi in rilievo che il D.Lgs. in questione impone al datore di lavoro, nell’art. 4, comma 5, lett. b), anche l’obbligo, che la dottrina e la giurisprudenza avevano già ricavato, in via di interpretazione, da un’attenta lettura della normativa previgente, di aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro, ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione protezione”. Orbene, stando alla sentenza, l’imputato ha avuto una preziosa occasione per aggiornare le proprie conoscenze sui rischi e, quindi, per aggiornare le misure di prevenzione, occasione costituita da quel certificato di prevenzione incendi dei vigili del Fuoco che, nel novembre 1996, nell’indicare le sostanze che presentavano pericolo d’incendio o scoppio, faceva riferimento ai 10 silos verticali esterni della capacità geometrica di 80 mc cadauno, contenenti farine proteiche.

Si obietta, sul punto, nel motivo che è inimmaginabile che i vigili del Fuoco abbiano potuto compiere l’errore gravissimo di non indicare anche il silos “presso il quale avvenne l’infortunio”. Ma, la corte di merito ha sottolineato correttamente, sul piano logico, che, “se era vero che il silos in cui erano avvenuti l’esplosione e l’infortunio era il silos posto all’interno dello stabilimento, ciò, però, nulla cambiava perché il pericolo di esplosione era evidentemente collegato al contenuto dei silos e non già alla loro collocazione e, quindi, l’indicazione di pericolosità specifica era riferibile a qualsiasi silos che contenesse farine proteiche e, dunque,anche a quello dove era avvenuto l’infortunio”. A ben vedere, però, è la stessa legge, la norma dell’art. 250 del DPR 547/1955, che impone queste logiche considerazioni, sicché può dirsi che la corte di merito, pur senza citare la norma, ha fatto proprio l’iter logico/giuridico che le è sotteso. La norma – che, come preannuncia la rubrica, si interessa dei “lavori di saldatura in condizioni di pericolo” – dispone, nel comma 1, che “è vietato effettuare operazioni di saldatura o taglio al cannello od elettricamente, nelle seguenti condizioni. a- su recipienti o tubi chiusi;

b- su recipienti o tubi aperti che contengono materie le quali sotto l’azione del calore possono dar luogo ad esplosioni o altre reazioni pericolose;

c- su recipienti o tubi aperti che abbiano contenuto materie che, evaporando o gassificandosi sotto l’azione del calore o dell’umidità, possono formare miscele esplosive.

E, nel secondo comma, che “altresì vietato di eseguire le operazioni di saldatura nell’interno dei locali, recipienti o fosse che non siano efficacemente ventilati”.

Come può notarsi, la legge, se fa una distinzione tra interno ed esterno, la fa per vietare ogni operazione di saldatura nell’interno dei locali, recipiente o fosse che non siano efficacemente ventilati,mentre esclude senza riserva, dovunque essi siano siti, che possano farsi saldature su recipienti o tubi chiusi o su recipienti o tubi aperti che contengono materie le quali sotto l’azione del calore possono dar luogo ad esplosioni o che abbiano contenuto materie che, evaporando gassificandosi sotto l’azione del calore o dell’umidità, possono formare miscela esplosive.

Come, dunque, ha bene affermato il giudice di merito, la legge tiene esclusivamente conto del contenuto e non dell’essere il contenitore, con quel contenuto, all’esterno o all’interno: l’Aloi, quindi, una volta informato che quel contenuto poteva esplodere, avrebbe dovuto informarne il Santoro a prendere, con questi le precauzioni previste dalla legge.

2 – Il secondo motivo è, del pari, infondato.

Volendo dare per certo che il S sapesse che il lavoro andava eseguito a lavorazione interrotta, non per questo la sua condotta ha assunto il ruolo di causa successiva da sola sufficiente a determinare l’evento.

La Corte, infatti, ha messo in risalto che in altre occasioni il S aveva avuto cura di lavorare ad impianto fermo non, però, per “paura che le farine di sangue potessero esplodere, essendo risultato, anzi che erano state fatte riparazioni utilizzando dall’esterno del silos la saldatrice ad impianto funzionante”, sicché “quando in passato si era scelto eventualmente di fare riparazioni o comunque manutenzione ad impianto fermo ciò era stato dovuto alla valutazione di rischi di genere diverso o, comunque, a valutazioni di natura diversa rispetto alla considerazione del pericolo di esplosione delle farine di sangue”. Può andarsi, però, anche oltre tutto ciò.

Il S, se avesse ricevuto le dettagliate informazioni previste dall’art. 7 del D.Lgs. n. 626/1994, avrebbe dovuto applicare la norma dell’art. 250 nella parte che gli vietava di effettuare saldature su recipienti o tubi che contengono materie le quali sotto l’azione del calore possono dar luogo ad esplosioni o altre reazioni pericolose, salvo che, come prevede il terzo comma della norma, le condizioni di pericolo si potessero eliminare con l’asportazione delle materie pericolose e dei loro residui, essendo in tal caso consentite le opere i saldatura sui relativi recipienti, purché “le misure di sicurezza siano disposte da un esperto ed effettuate sotto la sua diretta sorveglianza, e ciò a prescindere dall’essere gli impianti in funzione o meno, vietando la legge quelle operazioni di saldatura anche se gli impianti sono fermi e, quindi, prescindendo, appunto, dal loro funzionamento.

È da presumere che il S, che era solito eseguire lavori di saldatura conoscesse il divieto della norma dell’art. 250 anche quanto alle saldature su recipienti o tubi aperti contenenti materie che possono esplodere: l’informazione del datore di lavoro lo avrebbe posto nelle condizioni di non correre e di non far correre ai propri dipendenti rischi inutili, e ciò al di là degli altri eventuali profili di colpa ravvisabili e ravvisati nei confronti dello stesso S, il quale ha patteggiato la pena. L’art. 7 del D.Lgs. 626/1994, nel prevedere l’obbligo del datore di lavoro di fornire le imprese appaltatrici o ai lavoratori autonomi le dettagliate informazioni sui rischi specifici e nell’aggiungere, nella lett. a), del comma 2, che,nella ipotesi di cui al comma 1, i datori di lavoro cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e di protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto”, costituisce il datore di lavoro garante anche dell’integrità fisica dei lavoratori che dipendano dall’appaltatore, onerandolo di quella particolare posizione di garanzia che è la posizione di controllo, la quale ha per scopo di neutralizzare “determinate fonti di pericolo” in modo da garantire l’integrità dei beni giuridici che ne possono risultare minacciati. Ovviamente l’appaltatore è altrettanto garante e l’avere il legislatore previsto due garanti a tutela di determinati beni fa sì che entrambi siano tenuti a prestare la garanzia a eh, nella ipotesi in cui nessuno dei due la presti, il primo – il datore di lavoro – non possa ritenere che l’omissione del secondo sia stata causa successiva da sola sufficiente a determinare l’evento, non potendo, certo, sostenersi che la seconda omissione si sia risolta nella interferenza di una serie causale del tutto autonoma, essendo, logicamente,nella stessa linea causale della prima, avendo di questa, il medesimo contenuto, o contenuto analogo, e il medesimo scopo (cfr. Cass., sez. 4^, 6 dicembre 1990, Bonetti ed altri).

4 – Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

5 – Il difensore, dinanzi alla Corte, ha chiesto che, in applicazione dell’art. 5, comma 3, seconda parte, della L. 12 giugno 2003, n. 134, la corte applichi all’imputato la sanzione sostitutiva della pena pecuniaria della specie corrispondente, di cui all’art. 4 della anzidetta legge, che ha apportato modifiche all’art. 53 della L. 24 novembre 1981, n. 689.

La Corte, ricorrendone le condizioni, ritiene di applicare la sanzione sostitutiva della multa che determina in euro 4.958,00. Deve anche accogliersi la richiesta di revoca del beneficio della sospensione, essendo stata inflitta all’imputato la pena di quattro mesi di reclusione,che non consentiva, in allora – art. 53 citato – la sostituzione, prevista solo se la pena doveva essere determinata nel limite di tre mesi, ed essendo stato innalzato il limite, a mesi quattro, dalla citata legge n. 134 del 2003.

È, dunque, da questa incidenza sulla pena dello ius superveniens che scaturisce il diritto dell’imputato di scegliere, pagando la multa, di eseguire la pena pecuniaria, oggettivamente meno afflittiva della pena detentiva.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente al punto concernente la natura della pena alla quale sostituisce la pena della multa per euro 4.958,00 (quattromila novecento cinquantotto/00);
revoca il beneficio della sospensione condizionale della pena;
rigetta il ricorso nel resto.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2004.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2004

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