Repertorio Salute

Una corretta cultura della sicurezza: conviene?

Spesso si dice, e molte le inchieste lo confermano, che in Italia la cultura della sicurezza nelle imprese è carente, quando non assente.

I pessimisti aggiungono che oggi, nella migliore delle ipotesi, la cultura della sicurezza si limita a una conoscenza oggettiva, e cioè alla conoscenza di norme e procedure obbligatorie per legge, le quali, forse proprio perché obbligatorie, sono peraltro avvertite come vessatorie, intralciando con pesantezza burocratica le normali attività produttive, senza aggiungere alcun valore. La conseguenza di questa cultura “oggettiva” è un rispetto meramente formale delle norme e una scarsa e discontinua attenzione all’investimento in risorse umane e processi.

I più ottimisti, pur concordando con questo quadro, lo vedono in progressivo arretramento.
Chi vede rosa fa notare che se la conoscenza oggettiva, limitata alle norme, esiste, si va inserendo sempre di più una cultura soggettiva della sicurezza. Intendendo per cultura soggettiva:

l’insieme delle pratiche sviluppate e costantemente adottate dagli attori coinvolti, sulla base di principi e valori condivisi all’interno della propria organizzazione, per controllare i rischi presenti durante l’espletamento delle proprie attività lavorative.

Mettendo l’accento su “principi e valori condivisi”, che non vengono presentati come assunti astratti e genericamente etici, ma come punti appartenenti al complesso dei principi ispirativi delle strategie aziendali.

Facciamo un passo indietro. È noto che fino agli anni ’80, salvo lodevoli eccezioni (chi si ricorda i Circoli di qualità e le strategie di Alberto Galgano?), le strategie aziendali prescindevano dal fattore umano. Il modello che andava per la maggiore era quello de “le cinque forze competitive di Porter”, il quale ignorava totalmente l’idea che l’azienda dipendesse anche, se non principalmente, dalla condivisione dei propri obiettivi con i suoi lavoratori. Essi venivano (o vengono tuttora?) coinvolti solo sulla base di un più o meno complesso meccanismo di bonus, premi, benefits vari.

In questo contesto era (è?) difficile contemplare tra i propri obiettivi, nell’ambito del sistema di valutazione delle proprie performance, anche quello del miglioramento del livello di sicurezza e tutela della salute.

Ma oggi non è più così, almeno da quanto si apprende leggendo le nuove teorie sulle culture d’impresa. Ecco un brano tratta da una di queste:

Dopo le fasi di sviluppo industriale che hanno visto prevalere i complessi problemi della tecnologia e della commercializzazione dei beni prodotti, nella gestione aziendale si sono da tempo imposti i problemi di amministrazione del fattore umano, e alla loro migliore soluzione sono legati i maggiori successi imprenditoriali.
Le organizzazioni produttive hanno ormai appreso che per perseguire e migliorare il business in cui operano, devono impiegare e valorizzare sistemi di gestioni, cultura, stili di comando che lascino affermare la personalità dei propri collaboratori; discrezionalità, libertà ed autonomia della risorsa umane divengono le nuove connotazioni della sua centralità nell’impresa e costituiscono le fondamenta su cui costruire la professionalità, le competenze e il vantaggio competitivo dell’organizzazione, infatti la grande rilevanza del fattore ” organizzazione del personale” è da molti anni sostenuta dalla dottrina e trova conferma nelle esperienze concrete. Negli ultimi anni non sono state introdotte solo nuove tecnologie, ma si è assistito anche a dei cambiamenti nel campo dell’organizzazione del lavoro che ha generato la necessità di avere a disposizione nuove professionalità. Per tale motivo si sono delineati nuovi ruoli e sono emersi nuovi bisogni e nuovi valori dell’individuo, il quale da parte sua non offre più semplicemente forza lavoro, ma skills, professionalità, flessibilità e chiede di essere valutato per le sue qualità.

È evidente a tutti che non parliamo più di lavoratori come componenti di una “forza lavoro” che presta la propria energia al processo lavorativo, ma di persone che vengono coinvolte e che mobilitano le proprie capacità e la propria intelligenza per raggiungere degli obiettivi aziendali.

Il benessere lavorativo non è più un fiore all’occhiello da mostrare nei convegni, ma una dura necessità, da raggiungere quotidianamente. E di converso il “malessere” lavorativo diventa consapevolmente un costo, neanche tanto occulto, dell’impresa. Sono numerose oggi le esperienze anche europee e internazionali attraverso le quali si tenta di costruire un modello che permetta di rendere palesi i costi nella non-sicurezza e del mancato benessere. I risultati sono tali che ogni dirigente aziendale degno di questo nome che ne venisse a conoscenza non potrebbe che cercare di evitarli.

La domanda che si pone ora è: quante aziende stanno lavorando per questo?

Quanti top manager si fanno portatori di questi nuovi valori e principi? Se ciò non accade è difficile aspettarsi che il middle management, che in genere orienta i propri comportamenti e le proprie decisioni in funzione degli obiettivi giudicati prioritari dai propri superiori, possa trasmettere, applicare e governare efficacemente un nuovo processo organizzativo.

Una cultura della sicurezza veramente efficace in una grande azienda è quella caratterizzata dall’avere il middle e il top management che esercitino una leadership efficace nell’azione per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e, nello stesso tempo, sviluppino pratiche volte a coinvolgere direttamente il personale sia nelle varie attività di gestione che nell’applicazione puntuale delle regole e delle misure di sicurezza.

Riassumendo: una vera cultura della sicurezza è esercitata sia in forma direttiva che in forma partecipativa, dalla base verso il vertice aziendale.
Questo stile di leadership è caratterizzata dal considerare i processi lavorativi, pur se sotto controllo, sempre potenzialmente in grado di generare situazioni di rischio per il benessere del personale.
Questo tipo di leadership, inoltre, considera il processo di individuazione, analisi e valutazione dei rischi come un processo in continuo divenire che necessita, al fine di rendere affidabile l’intero sistema di prevenzione, di un approccio teso al miglioramento continuo. Del resto, procedure, istruzioni, ecc., sono sempre migliorabili.

La collaborazione si fonda poi su una costatazione tutto sommato banale, se la si guarda con occhio distaccato. Gli attori aziendali sono in possesso di conoscenze, capacità e competenze tra loro diverse, ma essenzialmente complementari le une alle altre e pertanto indispensabili per una gestione efficace dei rischi. Questa constatazione non è la riedizione del noto apologo di Menenio Agrippa, non va inteso come una esortazione paternalistica, quanto come un principio su cui fondare il concreto operare. E per evitare questo rischio occorrono gli strumenti adatti.

Esistono molti strumenti per incentivare un’effettiva partecipazione del personale ma il vero successo si raggiunge quando:

  • queste iniziative diventano attività organizzata, sistematica e valorizzata all’interno dell’azienda;
  • il personale acquisisce la consapevolezza e comprende l’importanza di queste iniziative;
  • il feedback proveniente dal campo viene analizzato e valorizzato dal management;
  • il personale viene coinvolto nei processi di miglioramento delle regole e delle procedure (dalla elaborazione alla validazione);
  • i risultati di tali attività vengono comunicati a tutto il personale.

Il coinvolgimento nell’elaborazione delle regole e delle procedure facilita anche l’interiorizzazione delle stesse da parte del personale, aumentando la motivazione alla loro applicazione.

La misura dell’effettivo coinvolgimento del personale nelle attività per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, la si ottiene verificando il livello di due indicatori:

  • l’applicazione delle regole e delle procedure condivise;
  • le iniziative prese per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Entrambi gli indicatori sono misurabili mediante la creazione di strumenti specifici.
Ad esempio, nel primo caso si possono creare dei gruppi di lavoro interfunzionali a diversi livelli gerarchici, che periodicamente verifichino l’applicazione delle regole e delle procedure tramite delle liste di controllo suddivise per reparti/funzioni.
Nel secondo caso si può pensare a gruppi di lavoro interfunzionali che abbiano l’obiettivo di analizzare delle aree-problema, individuare possibili soluzioni e presentarle al management per una valutazione condivisa della loro possibile adozione.

Utilizzando gli strumenti prima citati, di certo non nuovi ma validissimi se correttamente applicati, è possibile favorire la partecipazione del personale ottenendo, nello stesso tempo, un miglioramento continuo della concreta applicabilità delle regole e delle procedure per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e l’interiorizzazione delle stesse da parte del personale.

Aspettiamo una indagine che possa dirci se hanno ragione gli ottimisti o i pessimisti.

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