L’affaticamento mentale

L’affaticamento mentale è uno dei rischi tra i più ignorati, probabilmente per la scarsa conoscenza che se ne ha, e questo è paradossale perché negli ultimi anni, contemporaneamente con il diffondersi delle nuove tecnologie, ha avuto un forte sviluppo.

Tra gli studiosi che per primi hanno sviluppato importanti ricerche, e da queste rilevanti teorie e metodiche c’è un italiano: il Prof. Sebastiano Bagnara, il quale ha curato anche la relativa voce della Enciclopedia Treccani.

Come nasce l’affaticamento mentale ?

Dati osservativi, esperimenti, nonché l’esperienza soggettiva

scrive il Prof. Bagnara

mostrano che il sistema umano di elaborazione dell’informazione nel suo insieme, ma anche singoli sottosistemi che lo compongono (per es., la memoria di lavoro e l’attenzione) e la gran parte dei meccanismi e processi che agiscono al suo interno (per es., i meccanismi di programmazione dei movimenti e l’orientamento dell’attenzione nello spazio), presentano limiti strutturali, temporali e quantitativi (Bagnara 1984). Quando non vengono rispettati i limiti di tempo (troppa pressione temporale), di quantità (eccessiva informazione da trattare) e di specializzazione (richiesta di elaborazione di informazione non appropriata) dei sottosistemi e meccanismi da attivare nell’esecuzione dei compiti, si stabiliscono situazioni di ‘sovraccarico di lavoro mentale.

Tale sovraccarico ha come prima conseguenza quella di deteriorare la prestazione lavorativa.
Aumentano gli errori, si trascurano informazioni importanti, si marginalizzano anche quelle sulla sicurezza personale e cosi via.
Naturalmente, come per il processo di stress, vale il fatto che se il sovraccarico è occasionale e temporaneo in breve tempo la condizione di disagio viene rimossa.

Al contrario, se le situazioni di sovraccarico si susseguono,

si stabilisce un primo tipo di processo di affaticamento, in conseguenza del quale si verificano una caduta sempre più grave del benessere e una tolleranza sempre più limitata del carico di lavoro. Uno stato di fatica mentale è quindi il prodotto di un processo di accumulazione nel tempo di effetti di situazioni di sovraccarico e presenta componenti relative alla prestazione (e dunque cognitive) e componenti relative alla percezione del proprio stato di benessere (e dunque emotive e psicologiche, in senso lato).

Un dato particolare è che anche nello svolgimento delle mansioni più semplici, dove si registra abitualmente una condizione di sottocarico mentale, è possibile giungere alla stessa condizione di disagio causato dal sovraccarico.

Nel tentativo di mantenere una certa vigilanza, si controlla intenzionalmente l’attività prestando attenzione anche nei casi in cui non è necessario, anzi dannoso: si perde così la fluidità che caratterizza l’esecuzione di attività per le quali si è allenati tanto da poterle svolgere automaticamente, ‘a occhi chiusi’. Questo processo di affaticamento è accompagnato da noia e sensazione di spossatezza; si perde interesse per l’attività corrente, si innescano meccanismi di estraniazione e di fuga nell’immaginario e nella fantasticheria: è in questa scissione che va ricercata l’origine degli stati di alienazione che contraddistinguono il lavoro ripetitivo.

C’è infine una terza condizione che produce affaticamento mentale, e si realizza in presenza di un lavoro pure interessante, se questo si ripete con regolarità e occupa la persona per un tempo lungo.

Ciò accade perché

non consente di soddisfare un bisogno primario del sistema cognitivo umano: la ricerca della varietà. L’assenza di varietà e la costrizione nel livello di impegno, imposte dalle organizzazioni gerarchiche del lavoro anche a chi non svolge operazioni semplici e ripetitive, producono quindi un terzo tipo di processo di affaticamento.

In tutte e tre le condizioni, come si vede, entra in gioco il grado di autonomia che il lavoratore possiede nello svolgere il proprio lavoro.

Finora ci siamo soffermati su comportamenti individuali, ma la persona che lavora agisce all’interno di un complesso sistema socio-tecnico tridimensionale: organizzativo, sociale e ambientale che se mal strutturato diventa esso stesso fonte di affaticamento, con conseguenze ancora più drammatiche.

Se nel caso delle mansioni del singolo è possibile pensare di modificarle o di procedere a una turnazione in altre mansioni, nel caso in cui il quadro di riferimento sia il complesso del luogo lavorativo l’unica via di uscita è un radicale (e difficile) cambiamento dell’attività aziendale, o l’allontanamento dal luogo di lavoro.

La percezione di inadeguatezza investe la propria identità piuttosto che una particolare abilità; la tensione e l’ansia minano l’immagine e l’autostima; il recupero nella prestazione cognitiva è lento, ma ancora più lenti sono il recupero emotivo e il ritorno all’equilibrio psicologico.

Il processo di destrutturazione della persona o di un insieme di persone adibite a determinate mansioni è quantificabile osservando, con l’aiuto ad esempio di appropriate check-list, il progressivo venir meno degli elementi determinanti per eseguire bene e in uno stato psico-fisico soddisfacente la prestazione lavorativa richiesta.

Su come affrontare, prevenire o risolvere le condizioni di affaticamento mentale torneremo in uno dei prossimi numeri.

Lascia un commento