In tanti commenti ci si rapporta al lavoro agile o smart working come una novità assoluta. In realtà, a ben guardare, il lavoro agile non è altro che la naturale evoluzione di modalità di lavoro già in atto da molto tempo, ma che appaiono oggi più facilmente attuabili in virtù delle innovazioni tecnologiche e delle infrastrutturali disponibili. Certo, anche la pandemia ci ha messo la sua spinta. Ma da sempre le epidemie e le malattie spingono le innovazioni fino a che, grazie alle novità tecnologiche, riescono a far compiere alle società il salto definitivo. Basti pensare a cosa ha comportato lo sviluppo dell’igiene nelle città e nelle aziende dal punto di vista urbanistico, architettonico, dei materiali, delle strutture sanitarie e delle abitudini personali.
Il lavoro agile ha come caratteristica di fondo quella di slegare il lavoro da un determinato luogo fisico. L’uscire da casa per recarsi al lavoro non è una modalità che c’è sempre stata, anzi. L’esistenza di un “luogo di lavoro” ha inizio con la prima rivoluzione industriale, e diventa definitiva nei primi decenni dell’Ottocento, quando si raggruppa l’intero ciclo lavorativo in un unico luogo in cui vi è concentrata la forza energetica, le attrezzature necessarie e dove è più semplice imporre ritmi e modalità di lavoro. Alla fine del XIX secolo l’ingegnere F. Taylor aggiungerà alla centralizzazione, riducendo le diverse modalità lavorative in un unico modello scientifico: la “one best way”, un maggior controllo e una maggiore efficienza e persino una migliore igiene. Nonostante questi cambiamenti tumultuosi hanno continuato a svolgersi, fino a oggi, numerose attività presso il domicilio del cliente o del lavoratore.
A queste attività, recentemente, si è affiancato il telelavoro, spinto anch’esso dall’innovazione, meglio dire dalla rivoluzione, informatica. Ma non solo di questa. Il telelavoro, in realtà, è figlio anche dello choc petrolifero degli anni ’70 e dell’idea che sia bene iniziare a pensare di spostare i dati e i processi lavorativi piuttosto che le persone.
Il lavoro agile è il passo successivo permesso dai nuovi strumenti informatici che sono, anch’essi, sempre più “agili”. Si può oggi fare con il telefono portatile quasi tutto quello che fino a ieri era possibile fare solo con un computer fisso, legato a un hardware intrasportabile e legato a connessioni fragili. Davanti a queste novità si è iniziato a ragionare su quale sia il motivo per cui milioni di persone devono spostarsi ogni mattina per recarsi in posti a volte distanti diversi chilometri per svolgere la stessa, identica, attività che possono svolgere a casa o nei suoi pressi. Scrive il sociologo Domenico De Masi:
Si va in un quartiere per lavorare e si torna in un altro quartiere per dormire. Finiamo per essere estranei in entrambi i quartieri. Mezza città è vuota di giorno e mezza di notte.
I favorevoli come i contrari si concentrano principalmente sul tema del controllo degli ambienti e del lavoro. Da una parte le aziende sentono che rischiano di perdere la possibilità di verificare de visu i lavoratori e quindi cedere terreno sul piano del potere e dell’efficienza; dall’altra ci si preoccupa dell’isolamento del lavoratore, della monotonia dello stare nello stesso ambiente e del suo operare in ambienti casalinghi non strutturati per essere ergonomicamente adatti al lavoro. Temi seri, ma certamente non irrisolvibili.
È evidente che il dibattito, reso pressante non da scelte meditate ma dalla pandemia che ha imposto rapidamente il lavoro a casa a milioni di lavoratori italiani, sia ancora rozzo e venato da pregiudizi e poco concentrato sulle opportunità e le soluzioni.
La stessa normativa o le Linee guida dell’Inail risentono della realtà esistente al momento della loro emanazione quando gli addetti al lavoro agile erano migliaia (nel 2018 si valutavano in 570mila le persone addette) e non milioni (durante il lockdown sembra si sia arrivati a otto milioni di persone che lavoravano a casa).
Non c’è dubbio che uno dei compiti che abbiamo davanti consiste nel sottoporre a una profonda revisione le idee sul lavoro, sul come e su dove esso si realizza.
La pandemia ha già mostrato che le sue cause non possono essere affrontate localmente, che i virus nascono dalla pressione demografica ed economica sul pianeta e che possono spostarsi alla velocità dei mezzi di trasporto moderni. Quindi la vera prevenzione non si dispiega solo nell’ambito strettamente sanitario, ma in quello più complessivo dell’assetto economico e sociale mondiale.
L’Europa sembra il continente più consapevole della necessità di questi mutamenti. La Presidente della Commissione Von der Leyen ha dichiarato che l’Europa deve raggiungere la neutralità ambientale (ovvero non produrre più gas effetto serra di quelli ritenuti assorbibili) entro il 2050, e nel contempo ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 50% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Una rivoluzione green che prevede una profonda trasformazione industriale, ambientale ed economica del vecchio continente e i cui costi si aggirano, secondo Bruxelles, intorno ai 260 miliardi di euro all’anno.
In questo contesto quanto può reggere l’idea che si possa lavorare unicamente impiegando da una a tre ore al giorno solo per andare e venire dal proprio posto di lavoro (sopportando costi, stress e inquinamenti e sottraendole ad altri più utili impegni) per svolgere una attività che sempre meno trova motivi validi per essere svolta in esclusiva dentro i locali aziendali? Quanto potra resistere al cambiamento la struttura produttiva?
La Fiat di Mirafiori, la più importante fabbrica fordista italiana, contava negli anni ’70 75.000 dipendenti, la grande maggioranza operai, in un enorme stabilimento di oltre 2.000.000 di mq, con 20 km di linee ferroviarie interne. Oggi un sito industriale di queste dimensioni è impensabile. Infatti a Mirafiori ora lavorano circa 5.000 addetti e quasi altrettanti impiegati. Questo precedente, certamente non isolato a livello globale, ci racconta dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni.
È probabile che ne se seguiranno altri.