L’eccessivo carico da lavoro e le sue conseguenze

Una recente sentenza (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 4 gennaio 2018 n. 93) si è occupata di  un lavoratore del Ministero dei Trasporti che aveva contratto una malattia all’apparato digerente a causa delle

continue trasferte per almeno tre giorni a settimana presso aziende situate su tutto il territorio nazionale e anche lontane dalla sede di lavoro, con obbligo di rientro in ufficio almeno due volte a settimana,

le quali

avevano costretto il lavoratore ad effettuare lunghi viaggi anche con l’automobile e a dormire ed a consumare i pasti fuori casa più volte durante la settimana.

Naturalmente, sulla base dell’art. 2087 del Codice Civile, la Corte ha richiesto al lavoratore la prova della relazione tra la causa ed effetto, e al datore di lavoro le prove di aver fatto tutto ciò che era necessario, ricordando che

incombe al lavoratore che lamenti di avere subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente o delle condizioni di lavoro ed il nesso tra l’uno e l’altro.
E, a fronte della prova di tali circostanze […] sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la eventuale malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Nel processo era emerso che il danno fisico subito dal lavoratore era collegato a una sciagurata scelta organizzativa la quale obbligava il dipendente a

smaltire una notevole mole di lavoro e di assicurare la regolarità del servizio per gli utenti imponendo condizioni di lavoro particolarmente stressanti e gravose.

Il datore di Lavoro, in sostanza la Pubblica Amministrazione, aveva risposto alla Corte, adducendola come prova a discarico, la cronica carenza di organico di cui il Ministero soffre da tempo. A questo la sentenza risponde ribadendo un principio importante quello per cui

la generica allegazione della carenza di organico, da sé sola non è sufficiente ad integrare la prova liberatoria, occorrendo la deduzione di fatti specifici, restando altrimenti imputabile alla Pubblica Amministrazione l’evento lesivo ascrivibile, in via anche solo concausale, a comportamenti dolosamente o colposamente commissivi o anche omissivi in violazione dell’obbligo di protezione dei lavoratori di cui all’ art.2087 c.c.

Inoltre

l’organizzazione degli Uffici pubblici, la consistenza degli organici, l’entità dei servizi da rendere all’utenza, le condizioni ambientali in cui il personale si trova ad operare e la predisposizione di turni di lavoro sono circostanze ben note alla Pubblica Amministrazione, e ai suoi dirigenti, cui sono riconducibili i comportamenti (omissivi o commissivi) attraverso cui le scelte organizzative si esprimono (Cass. 14313/2017).

In sostanza, afferma la Corte, se i fatti sono noti, la Dirigenza non può far finta di niente attivando il classico rimpallo di responsabilità. Né può ribaltare sui lavoratori, creando loro un danno, la condizione di sofferenza. Non fosse altro per il fatto che la Dirigenza ha la potestà, se non di assumere liberamente secondo le esigenze, quella di organizzare il lavoro in modo tale da ovviare a possibili conseguenze sui lavoratori.

Si torna, in tema di salute, al collegamento, spesso dimenticato, tra salute e organizzazione del lavoro aziendale. Non solo inteso come numero di lavoratori addetti, ma come distribuzione di carichi, ritmi, incarichi, mansioni, ruoli e anche gli aspetti formativi, informativi e relazionali che sembrano essere questioni interne all’azienda distaccate dalle problematiche della salute e sicurezza dei lavoratori. La Corte, ad abundantiam, ribadisce che invece i due aspetti sono connessi, come anche la semplice osservazione della realtà porta a concludere.

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