Qualche giorno fa lo SNOP (la società degli operatori della prevenzione) denunciava in un articolo dal significativo titolo “Lo stress c’è ma non si vede” lo strano paradosso italiano. Le condizioni di lavoro, le ristrutturazioni organizzative, le difficoltà economiche delle aziende sono nella media europea. Ma non sembrano essere nella media i parametri delle patologie dei lavoratori. La media europea ci dice che circa il 25-30% dei lavoratori sono esposti a un “forte rischio organizzativo”, cioè un lavoratore su quattro o su tre. In Italia le percentuali dei lavoratori che percepiscono lo stesso rischio sono molto più basse, quasi inesistenti.
Il paradosso è ancora più eclatante se si pensa che pur registrando dati e consumo di farmaci pari alle medie di altri Paesi, le patologie connesse, le cause del consumo di farmaci, non s’intravvedono. È come se venisse proiettata un’ombra senza la persona o l’oggetto che la crei. Come mai?
Escludiamo che l’Italia sia una terra senza problemi, in cui tutte le aziende siano perfettamente organizzate e la soddisfazione dei lavoratori raggiunga picchi inusitati. E cerchiamo meglio di capire cosa è che invece permette di giungere, sul tema stress lavorativo, a quello che l’articolo definisce “un anacronistico e tranquillizzante semaforo verde”. Alludendo al fatto che molte metodologie che vengono utilizzate per accertare il rischio stress alla fine si concludono con l’indicazione di uno stato, simboleggiato da un semaforo, di assenza di rischio (verde), presenza parziale (giallo), presenza importante (rosso).
È molto probabile che convergano tre cause. La prima la scarsa confidenza con i temi psicologici che appaiono ancora come di difficile gestibilità e facilmente esposti a una manipolazione sia in positivo che in negativo. La seconda il timore di entrare in una analisi dei rischi che possa richiedere forti cambiamenti organizzativi oppure relazionali o comunicativi rispetto alla consolidata prassi aziendale. Infine la complessità dei procedimenti di accertamento del rischio, la possibilità che si debbano coinvolgere figure esterne all’azienda e così via.
Possiamo aggiungere a queste tre cause, che possano anche sommarsi tra loro, una sempre presente cultura burocratica che vede l’analisi dei rischi come una procedura formale “esterna” alla vita produttiva, mirata a produrre carta a mezzo carta in risposta a obblighi di legge disconnessi dalla quotidiana gestione aziendale.
Una prova della difficoltà, più che dell’inesistenza del tema stress, la troviamo nel fatto che fino a che la norma non abbia esplicitamente e senza equivoci chiarito che nella valutazione dei rischi vanno compresi anche i rischi derivanti dallo stress lavoro correlato, quindi dal 2008, il numero delle analisi sul rischio stress nelle aziende o negli enti italiani erano vicine allo zero. I motivi non possono essere certo fatti tutti risalire al datore di lavoro o ai suoi collaboratori, tra cui il RSPP che spesso viene additato tra le cause perché possedendo soprattutto una formazione scientifica, non avrebbe sufficiente dimestichezza con quelle problematiche relazionali più legate agli studi umanistici. In realtà sia i medici competenti, che spesso affrontano con ritrosia il tema dei rischi psicosociali, sia gli stessi lavoratori e i loro rappresentanti che pure mostrano timidezza e scarsa conoscenza di questi rischi, sono portatori di un loro carico di responsabilità.
La conclusione è che il nostro Paese non è l’Eden, ma vive con un enorme ritardo due aspetti. Il primo è il considerare l’analisi dei rischi come la confessione delle proprie manchevolezze interne piuttosto che come lo sforzo che si produce per migliorarsi. Il secondo che proprio l’analisi del grado di stress è una delle occasioni, forse la migliore, per capire il grado di “sofferenza” che l’organizzazione nel suo complesso sopporta per raggiungere i propri obbiettivi. Risulta evidente che avere il polso dello stato organizzativo interno e del fattore umano in particolare non può che contribuire a migliorare il processo produttivo. Facilitando da una parte la riduzione dei costi umani ed economici e agevolando, dall’altra, il raggiungimento degli obbiettivi dati, il miglioramento delle performance aziendali e i risultati in termini di qualità. L’articolo lascia intendere che però prima o poi la concorrenza globale e la conseguente necessità di migliorare la qualità del lavoro in uno scenario sempre mutevole e incerto, spingeranno, come già s’inizia a vedere, le imprese a prendere di petto anche i rischi psicosociali con la stessa determinazione che impiegano per gli altri rischi.