Commenti alla giurisprudenza: Mobbing e maltrattamenti in famiglia

L’immagine di copertina dell’articolo è tratta da: http://news.skppsc.ch/it/category/internet2/cyber-mobbing/

Il fenomeno del  “mobbing” nell’ordinamento giuridico penale non ha una precisa collocazione normativa, non sussistendo una fattispecie di reato ad hoc introdotta dal legislatore che lo contempli. La giurisprudenza ha formulato, di volta in volta, diverse ipotesi interpretative, riconducendo l’attività vessatoria posta in essere dalla parte datoriale nei confronti del dipendente in fattispecie di reato diverse tra loro per elementi costitutivi e bene giuridico protetto, spaziando dalle lesioni personali all’ingiuria e diffamazione, sino all’omicidio colposo.

Recentemente, l’attività di esegesi del Supremo collegio si è concentrata sulla interpretazione del reato di  maltrattamenti in famiglia previsto e punito dall’art. 572 c.p., ritenuto dai Giudici di legittimità per le intrinseche caratteristiche strutturali idoneo a ricomprendere qualsivoglia tipo di condotta persecutoria reiterata nel tempo ed in grado, al contempo, di offrire alle persone offese dal reato una tutela penale rafforzata rispetto ad ipotesi meno afflittive dal punto di vista sanzionatorio, quali la violenza privata, ovvero le lesioni personali (colpose o volontarie).

In particolare, le prime pronunce della Suprema Corte caratterizzate da una interpretazione estensiva della norma, ritenevano integrato il reato di maltrattamenti in famiglia ogniqualvolta il datore di lavoro ponesse in essere comportamenti, in modo continuato e sistematico, diretti a opprimere e vessare un proprio dipendente al fine di emarginarlo dal contesto lavorativo, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda e dall’organizzazione nella gestione delle mansioni attribuite ai lavoratori.

A tale orientamento se ne contrapponeva un altro di segno opposto, peraltro ritenuto prevalente dalla Suprema Corte che, viceversa, riteneva configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia soltanto in presenza di un dato quantitativo legato alle dimensioni dell’azienda nel senso che soltanto per imprese con pochi occupati era possibile ravvisare tra datore di lavoro e dipendente un rapporto simile a quello tipico della relazione familiare.

Orbene, nell’alveo di questa interpretazione si colloca la prima pronuncia oggetto di commento ossia la sentenza Cass. Pen. sez. VI, 27 novembre  2014 n. 49545,  resa all’esito di ricorso  proposto  contro l’ordinanza di archiviazione del procedimento disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari per insussistenza dell’addebito. Da quanto si può ricavare dal testo della sentenza, in punto di fatto la ricorrente lamentava di essere stata sottoposta a discriminazione sul posto di lavoro all’interno di una Struttura Ospedaliera, per avere il datore di lavoro denegato immotivatamente una sua richiesta di ferie, nonché istigato contemporaneamente dei colleghi del reparto a presentare apposita istanza, poi accolta, con il dichiarato intento di discriminarla ed offenderla.

In tale occasione, la Suprema Corte, accogliendo espressamente l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ha enunciato il seguente principio di diritto:

il delitto di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 c.p. può certamente trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo, a condizione che sussista il presupposto della para familiarità , intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.

Ed ancora

le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente abbia natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta nel soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. 

Ed in riferimento al caso di specie oggetto di ricorso la corte di Cassazione ha escluso che le dimensioni del presidio ospedaliero teatro della condotta denunciata (ancorché  struttura di provincia e quindi non assimilabili a quelle di un grande centro urbano) potessero consentire e prevedere nel suo ambito forme di subordinazione lavorativa assimilabili a quelle descritte nei principi di diritto, dando quindi importante rilievo all’aspetto dimensionale dell’ambiente lavorativo.

Viceversa con una ancor più recente pronuncia (Cass. Pen. sez. VI, 22 dicembre 2014 n. 53416) che si segnala per la completezza di trattazione del tema mobbing in relazione ai reati di maltrattamenti in famiglia e di lesioni volontarie gravi (di natura psicologica), la Suprema corte, con l’evidente finalità di fornire agli interpreti l’esatta individuazione del perimetro della tutela penale nell’ambito del delitto di maltrattamenti in famiglia,  riformando la sentenza resa in secondo grado dalla Corte di Appello di Torino, si è pronunciata sulla rilevanza penale di condotte contestate al presidente del C.d.A. e all’amministratore delegato di una società di medie dimensioni (25 dipendenti) che secondo l’imputazione loro elevata a titolo di concorso, avevano posto in essere i seguenti comportamenti antigiuridici:  assegnato la dipendente a mansioni diverse e meno qualificanti rispetto a quelle svolte prima della maternità o addirittura a nessuna mansione (costringendola a rimanere seduta per ore a rimanere seduta su una sedia in corridoio); ghettizzata e lasciata fuori da occasioni conviviali comuni ai lavoratori (la cena aziendale, dalla quale veniva esclusa mediante comunicazione scritta visibile a tutti i dipendenti); adottato nei confronti della medesima vari provvedimenti disciplinari sino al licenziamento per “giusta causa” poi riconosciuta dal giudice del lavoro come inesistente; rifiutato di dare attuazione al disposto reintegro nel posto di lavoro e più in generale nell’attuare comportamenti ostili, persecutori, denigratori e lesivi della dignità della dipendente.

È bene osservare che la  decisone assolutoria della Corte territoriale di Torino si fondava sull’assunto che non poteva ravvisarsi l’ipotesi delittuosa di maltrattamenti in famiglia per mancanza del requisito della para-familiarità come sopra indicato difficilmente compatibile con le seguenti circostanze di fatto acquisite al processo:

  1. mancanza del presupposto della personalizzazione del rapporto di lavoro in un’impresa con 25 dipendenti; 2)
  2. rilevante anzianità di servizio della persona offesa che escludeva la possibilità di considerare sussistente uno stato di soggezione;
  3. presenza di un atteggiamento discriminatorio analogo adottato dai vertici dell’impresa nei confronti di tutte le lavoratrici madri;
  4. assenza di condizione di subordinazione esclusa dal fatto che la persona offesa aveva fatto valere i propri diritti nelle competenti sedi giudiziarie.

La Corte di cassazione investita del ricorso dal Procuratore Generale ha ritenuto il tessuto motivazionale della sentenza impugnata affetto da evidenti vizi di illogicità nel ragionamento seguito dal giudice d’appello contenente peraltro affermazioni in contrasto con i principi statuiti in materia dalla stessa giurisprudenza di legittimità richiamati in modo inconferente.

Gli Ermellini, come principio generale, hanno quindi precisato che il requisito della para-familiarità del rapporto del lavoro non  può essere di per sé  essere escluso nelle grandi aziende, rendendone quindi l’accertamento slegato al  mero dato quantitativo del numeri di dipendenti dell’impresa assumendo, al contrario, valore dirimente l’aspetto qualitativo legato alla natura del rapporto instaurato tra datore di lavoro e lavoratore, con la conseguenza che se è pur vero che in realtà aziendali di medie o grandi dimensioni la spersonalizzazione del rapporto rende difficile l’instaurarsi di dinamiche ascrivibili al fenomeno del mobbing, nulla esclude che, come nel caso di specie oggetto di disamina, si possano verificare fenomeni vessatori reiterati dalla parte datoriale assimilabili ai maltrattamenti in famiglia.

Nel precisare quanto sopra la Suprema corte ha obliterato la valenza probatoria degli argomenti posti a sostegno della sentenza assolutoria impugnata affermando che il requisito della para-familiarità, quale indefettibile presupposto per ritenere integrato il delitto p e p. dall’art. 572 c.p. si configura tutte le volte in cui:

ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine  o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare o comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale gestisca l’azienda con atteggiamento “padronale” e, dunque, in modo autoritario dì da innescare quella dinamica relazionale “supremazia – subalternità” che si ritrova nelle relazioni fra soggetti che si ritrovino ad operare su piani diversi.

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