Probabilità, possibilità, tipicità del pericolo

Fonte: PdE, rivista di psicologia applicata all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente
articolo di Antonio Zuliani & Wilma Dalsaso


In questo articolo esaminiamo tre aspetti strettamente connessi alla percezione del pericolo, ovvero a quei meccanismi mentali che fanno in modo che la persona sia indotta a pensarlo in termini di possibile, probabile o tipico. Conoscere questi meccanismi significa avere un’arma in più per comunicare efficacemente e quindi indurre le persone ad avere una percezione del rischio più realistica e ancora meno il pericolo di comunque il mondo del lavoro presenta quotidianamente.

Possibile, probabile

Ogni problema che implichi, per la sua soluzione, l’utilizzo della probabilità incontra particolari difficoltà a livello del sistema cognitivo. D’altra parte, come ricordano Motterlini e Guala (2015) le persone non sono capaci di analizzare le situazioni sulla base del calcolo della probabilità anche perché non hanno le risorse mentali per svolgere i complessi calcoli richiesti dalle leggi della probabilità.

Ecco dunque che, come hanno osservato Tversky e Kahneman (1973), quando formuliamo un giudizio attorno alla probabilità che un evento si realizzi, lo facciamo sulla base di ciò che ci viene più facilmente in mente. In questo senso i due studiosi hanno coniato il concetto di euristica della disponibilità. Non si tratta quindi di probabilità, bensì di possibilità.

Nel campo della sicurezza sul lavoro questa disponibilità può portare a sovrastimare o viceversa a sottostimare un rischio sulla base del fatto che siano cognitivamente più o meno disponibili (Dube-Rioux e Russo, 1988; Weber, 2006). La conseguenza che ne deriva è di vivere un’eccessiva paura quando si sovrastima o un’eccessiva sicurezza quando si sottostima, emozioni che potrebbero non essere coerenti con il pericolo presente. Questa tendenza si accentua quando l’emozione è molto forte (Loewenstein e altri, 2001; Sunstein, 2001) tanto che la persona concentra la sua attenzione sul fatto piuttosto che sulla probabilità che si realizzi (Rottenstreich e Hsee, 2001).

Ritornando al campo della sicurezza, Sunstein (2014) afferma che quando ci poniamo la domanda circa la probabilità statistica di imbatterci in un pericolo, tendiamo a rispondere richiamando alla memoria i casi che conosciamo nei quali tale pericolo si è manifestato. In altre parole, non giudichiamo le cose che accadono per la loro frequenza, ma relativamente al fatto che ci sia facile o meno immaginarle mentalmente oppure perché ci impressionano emotivamente. Questo è ciò che avviene nel gioco d’azzardo quando la possibilità di una vittoria mette in secondo piano la valutazione della sua probabilità. Come osservano Motterlini e Guala quando il jackpot del Superenalotto sale a cifre molto elevate, cresce il numero delle persone che giocano, anche se questo diminuisce la probabilità di ottenere la vincita. Di converso, quando il timore di una malattia per quanto rara la fa immaginare come molto possibile nella vita di una persona. Piattelli Palmarini (1993) presenta un esempio efficace a proposito del fatto che siamo spinti a rallentare nella guida subito dopo aver visto un incidente stradale. Lo facciamo non perché quell’incidente oggettivamente renda più probabile che succeda anche a noi, ma perché lo pensiamo possibile avendovi assistito (diviene un esempio disponibile).

Un ulteriore errore cognitivo relativamente alla probabilità lo ritroviamo in un esempio elaborato da Tversky e Kahneman (1980). Durante la notte un taxi è stato coinvolto in un incidente con omissione di soccorso. Voi avete a disposizione tre dati:

L’85% dei taxi della città sono verdi e il 15% sono blu. Un testimone ha dichiarato che il taxi coinvolto nell’incidente è blu. Il tribunale, al fine di assicurarsi l’attendibilità del testimone, verifica che in circostanze simili a quelle della notte dell’incidente, il testimone ha identificato correttamente il colore dei taxi nell’80% dei casi. A questo punto quale probabilità sareste disposti a dare al fatto che il taxi dell’incidente fosse veramente blu? La maggior parte delle persone dichiara una stima superiore al 50%. Vediamo se è vero. Se prendiamo un campione di 100 taxi, 85 saranno verdi e 15 blu. Tra gli 85 verdi il testimone ne identificherà correttamente 68, mentre 17 (il 20%) saranno identificati erroneamente come blu. Concentriamo ora l’attenzione sul campione dei taxi blu. Anche qui 12 (l’80%) saranno correttamente identificati, mentori i restanti 3 saranno visti verdi. Quindi il testimone ha visto 29 taxi blu (17 + 12); il fatto è che 17 di queste identificazioni sono errate (quasi il 59%). Da questi calcoli comprendiamo che la vera probabilità che il taxi coinvolto nell’incidente sia blu è solo del 41%.

L’euristica della disponibilità diviene un ottimo stratagemma per sottrarsi alla fatica di un calcolo probabilistico, in quanto evidenzia ciò che appare più tipico rispetto a ciò che è più probabile. Sotto questo aspetto Gigerenzer (2014), spesso in dissenso con alcune delle tesi degli autori fin qui citati, avanza la proposta di cessare di utilizzare i concetti probabilistici per passare al concetto di frequenza naturale che rende più accessibili i problemi posti. Su questo ha una grande influenza il fatto che la disponibilità di un dato nei media lo renda facilmente disponibile. Questo porta a ritenerlo “familiare” e saliente e quindi sovrastimato nella probabilità del suo avverarsi.

Strettamente correlato a questa difficoltà a trattare la probabilità vi sono altri errori sistematici di giudizio spesso interconnessi tra di loro e di cui citiamo quelli più attinenti alla presente trattazione. La “legge dei piccoli numeri” (Tversky e Kahneman, 1971) che spinge a ritenere credibili piccole serie di numeri o di eventi, confondendo questo fenomeno con la serie statistica dei grandi numeri che si realizza solo quando ci si approssima all’infinito. La “fallacia dello scommettitore” (Brunsvik, 1939) che spinge a pensare che vi sia una correlazione tra eventi del tutto indipendenti. Un esempio è il pensare, giocando alla roulette, che dopo l’uscita per due volte del rosso sia più probabile che la pallina si fermi sul nero o che vi siano dei numeri in qualche modo collegati tra di loro (aspetto spesso suggerito ai giocatori del Lotto da alcune trasmissioni presenti nelle televisioni). In effetti si tratta di eventi statisticamente indipendenti, che noi siamo spinti invece a collegare tra di loro. La difficoltà a comprendere l’esistenza della “regressione verso la media” (Tversky e Kahneman, 1974), per cui dopo una performance particolarmente positiva è più probabile che se ne presenti una più negativa e il suo opposto. La “confusione dell’inverso” (Dawes, 1988) che consiste nel confondere la probabilità condizionale che un evento accada dato che è accaduto un altro evento.

Tipico

Dopo aver presentato le difficoltà di gestione cognitiva del concetto di probabilità al quale, come abbiamo visto, tendiamo a preferire quello di possibilità, esaminiamo un altro aspetto saliente dei nostri processi cognitivi: la tipicità.

Un buon esempio lo vediamo su di un raccontino che qualcuno ci ha narrato. Provate a immaginare che la vostra vecchia zia (tutti abbiamo una vecchia zia) vi regali per il vostro compleanno un vaso per mettere i fiori freschi del giardino. Si tratta di un vaso di vetro con il collo lungo che finisce con un beccuccio e due piccole maniglie nella parte bassa. La vecchietta non ricorda se il vaso sia stato prodotto dal laboratorio Albon o da Serial. La cosa non è di poco conto perché l’attribuzione ne cambia significativamente il valore. Al fine di determinarne il valore, fate una ricerca dalla quale emerge che il 70% dei vasi prodotti dalla ditta Albon hanno il collo lungo che finisce con un beccuccio e che ben l’80% dei vasi prodotti da quella stessa ditta presenta proprio due piccole maniglie nella parte bassa. Questi due dati vi farebbero facilmente pensare che il vaso sia prodotto dalla ditta Albon, e sbagliereste! Avreste commesso l’errore di confondere la tipicità (come quella di pensare che sia vero e non solo tipica l’affermazione che tutti hanno una vecchia zia) con la realtà, incorrendo in quello che viene definito “errore pseudodiagnostico”. Le due informazioni separate non hanno un vero valore per attribuire il vaso a uno dei due laboratori. Per farlo sarebbe necessario collegarle tra di loro. Ovvero sapere la percentuale di vasi prodotti da Albon che hanno assieme il collo stretto a becco e i due manici, rispetto alle stesse caratteristiche presenti assieme nei vasi prodotti da Serial. Si tratta, in altri termini, di applicare quel concetto di probabilità condizionata, che appare del tutto lontano ed estraneo dal più facile concetto di tipicità.

La tipicità entra in ballo ogni qualvolta utilizziamo alcuni aspetti della realtà all’interno di un sistema precostituito, che ci sembra ovvio. Piattelli Palmarini (1993) presenta un esempio emblematico quando siamo spinti a pensare che una figlia sia simile alla madre, ma fatichiamo a pensare al rapporto inverso ovvero a quanto la madre sia simile alla figlia. In qualche modo la tipicità fa in modo che non riceviamo un elemento percepito all’interno di una categoria conosciuta. Può trattarsi di una categoria di oggetti, ma anche di processi mentali. Il limite di utilizzo della categoria di tipicità è quello di escludere tutte le informazioni che non vi corrispondono. In sostanza la trappola della tipicità interviene nella fase stessa in cui si elaborano le informazioni che le persone hanno a disposizione per produrre un giudizio.

Strategie

Si tratta quindi di cercare una modalità comunicativa che aiuti le persone a uscire da queste difficoltà di comprensione, cosa di grande importanza nel campo della sicurezza.

Una strategia per aiutare il cervello a comprendere la statistica è quella di abbandonare i numeri percentuali sostituendoli con parole di cogente efficacia. In questa direzione Gigerenzer (2014) propone un illuminate esempio. Riferendosi alle previsioni del tempo si domanda cosa possa significare per una persona una previsione che dichiari che l’indomani la probabilità di pioggia sia del 30%. Può significare molte cose: che pioverà poco, che pioverà solo per alcune ore, che non tutti i metereologi sono d’accordo sul fatto che pioverà, e così via. L’autore suggerisce che sarebbe molto più chiaro sostituire questi apparenti neutrali, ma alla fine incomprensibili numeri con una parola tipo “verosimilmente” pioverà. Così, anche noi quando parliamo di sicurezza sul lavoro possiamo tentare di abbandonare il % e “parlare chiaro” utilizzando delle esemplificazioni riavvicinino la percezione dei soggetti al pericolo al quale stiamo parlando. Così, proporre la probabilità di un infortunio sul lavoro può arrivare a far percepire come irrilevante o di converso come l’inquietante. Diviene molto più efficace una comunicazione che faccia riferimento (in questo caso il meccanismo della possibilità e della tipicità giocano a nostro favore) a un incidente accaduto a uno specifico lavoratore medio, che il soggetto destinatario di informazione senza rappresentare se stesso e quindi si identifichi in lui. In questo caso la comunicazione del pericolo entra efficacemente nei meccanismi mentali.

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