Il punto di vista dei sindacati europei: l’urgenza di rivitalizzare la politica comunitaria in materia di salute e sicurezza sul lavoro

di Laurent Vogel
Ricercatore presso l’Istituto Sindacale Europeo
Coordinatore del gruppo “lavoratori” presso il Comitato consultivo su salute e sicurezza

Ogni anno, circa 160.000 persone muoiono per conseguenze derivanti dalla mancata prevenzione sui luoghi di lavoro nell’Unione europea. I tumori dovuti a esposizioni professionali rappresentano, da soli, quasi 100.000 decessi l’anno. Non si tratta unicamente di un riflesso del passato. Varie inchieste nazionali mostrano che ancora oggi un’elevata percentuale di lavoratori è esposta ad agenti cancerogeni e a sostanze aventi effetti nocivi sul sistema endocrino, in condizioni in cui manca una prevenzione collettiva. Se è vero che lo sviluppo dei nanomateriali è stato rapido, è altrettanto vero che la valutazione dei rischi legati al loro utilizzo ha mosso soltanto i primi passi.

Oltre alla questione della mortalità, l’inchiesta europea sulle condizioni di lavoro del 2010 mette in luce numerose tendenze preoccupanti:

  1. Crescenti disuguaglianze fra i paesi dell’Unione e, all’interno di ogni paese, fra categorie di lavoratori. Disuguaglianze che riguardano in particolare i lavoratori precari e quelli delle piccole e medie imprese che, nella pratica, hanno meno diritti e meno strumenti per difendere la loro salute rispetto ai lavoratori delle grandi aziende.
  2. Per molti lavoratori, le condizioni di lavoro sono incompatibili con la permanenza occupazionale fino all’età della pensione. Fra il 2000 e il 2010, la percentuale di lavoratori che riteneva di poter conservare il lavoro fino al raggiungimento dei 60 anni è leggermente aumentata, passando dal 57,1 al 58,7%. Un piccolo incremento, ma che riguarda solo gli impiegati. Per gli operai, invece, la situazione è peggiorata. Meno della metà degli operai considerava che le condizioni di lavoro avrebbero permesso loro di continuare fino all’età di 60 anni. Fra gli operai qualificati, la percentuale, pari al 52% nel 2000, si attestava al 49,3% nel 2010. Fra gli operai scarsamente qualificati, la percentuale era pari al 46,2% nel 2000, scesa poi al 44,1% nel 2010.
  3. Gravi disuguaglianze fra uomini e donne. Le donne sono fortemente concentrate in un numero relativamente basso di settori e di attività, e con meno posizioni elevate nella gerarchia. La parità di accesso per uomini e donne all’insieme dei posti di lavoro passa necessariamente attraverso un miglioramento delle condizioni di lavoro. In questo campo, la politica per la salute sul posto di lavoro e quella per l’uguaglianza hanno ruoli complementari da svolgere.

Al di là delle cifre, le condizioni di lavoro sono all’origine di un numero elevato di malattie e causano grandi disuguaglianze sociali per quanto riguarda la salute. Il deterioramento delle condizioni di lavoro è incompatibile con obiettivi fondamentali delle politiche comunitarie come l’aumento dei tassi di occupazione nel contesto demografico dell’invecchiamento della popolazione in Europa.

Un deterioramento aggravato dalla crisi attuale. È assurdo pensare che le politiche per la salute sul posto di lavoro abbiano contribuito a questa crisi. Sappiamo tutti che le cause sono da ricercare altrove: nel fallimento delle politiche di deregolamentazione, che hanno indebolito i controlli pubblici sugli attori finanziari, e nell’aumento drammatico delle disuguaglianze sociali in tutta Europa.

I dieci anni delle due precedenti commissioni presiedute da Barroso sono stati dieci anni sostanzialmente perduti nel campo delle politiche comunitarie per la salute e la sicurezza sul lavoro. Occorre procedere a un bilancio lucido, senza compiacimenti, in modo da poter rispondere a un’esigenza sociale dei cittadini in Europa: far sì che le loro condizioni di lavoro vengano migliorate e non mettano più a repentaglio la loro vita o la loro salute.

Il Trattato comunitario riflette chiaramente questa esigenza. L’ex articolo 118 A, ripreso nell’attuale articolo 153 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, è chiaro. Esso fissa come obiettivo l’armonizzazione nel progresso delle condizioni di lavoro e definisce lo strumento più adatto per raggiungere questo obiettivo. Occorre adottare direttive che definiscano una base comune di norme minime da attuare in tutti gli Stati membri.

L’inchiesta ESENER condotta dall’agenzia di Bilbao conferma l’importanza di una legislazione precisa e completa per organizzare la prevenzione. Secondo questa inchiesta, condotta su un campione di 36.000 aziende, il fattore principale che spinge le imprese a sviluppare una politica di prevenzione è l’esistenza di una normativa. Il 90% delle imprese indica di essere spinto ad agire per il fatto di dover rispettare una normativa. In 22 dei 27 paesi questo fattore è il primo nelle risposte fornite. Il secondo fattore più indicato come stimolo per l’azione preventiva è la richiesta in tal senso proveniente dai lavoratori e dai loro rappresentanti. Viene indicato da tre imprese su quattro. In proposito, occorre ricordare che in Europa la metà dei lavoratori non dispone di alcuna forma di rappresentanza. Questa situazione è particolarmente critica nelle piccole e medie imprese. Esistono, tuttavia, soluzioni concrete per affrontare questo problema. È possibile citare gli esempi incoraggianti registrati in Svezia e in Italia di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza che vengono designati a livello territoriale.

La normativa adottata sulla base della direttiva quadro del 1989 ha rappresentato un fattore positivo importante nei vari Stati membri. Grazie ad essa è stato possibile rinnovare le normative nazionali e migliorare la prevenzione in vari settori. Sbaglieremmo, tuttavia, nel considerare che questa normativa, la cui parte essenziale risale a una ventina d’anni fa, fornisca risposte definitive all’insieme dei problemi attuali.

Da una parte, l’evoluzione delle condizioni di lavoro fa emergere nuovi rischi. Dall’altra, l’esperienza acquisita sulla base delle direttive permette di individuare un certo numero di lacune e carenze all’interno delle direttive stesse.

Su numerosi punti, il Comitato consultivo tripartito per la salute e la sicurezza ha individuato delle priorità nel parere adottato all’unanimità a dicembre 2011. Sempre a dicembre 2011, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che, su numerosi punti, concorda con il parere del Comitato tripartito. Anche l’Alto comitato degli ispettori del lavoro ha formulato proposte molte utili.

La comunicazione della Commissione su un quadro strategico per la politica di salute e sicurezza adottata a giugno 2014 non risponde alle attese espresse. È un documento che formula considerazioni generiche su cui possiamo esser d’accordo ma in cui mancano drammaticamente le proposte concrete per quanto riguarda l’azione comunitaria. Sulla base di questo documento, non è possibile rivitalizzare la politica comunitaria per la salute e la sicurezza sul lavoro.

È fondamentale determinare quale possa essere il ruolo dei vari attori, che si tratti delle istituzioni comunitarie, degli Stati membri, delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali o di altri attori.

Dal nostro punto di vista, il ruolo principale della Commissione europea si concretizza in due elementi. Da una parte, essa detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa. Non dovrebbe abusare di questa posizione privilegiata rifiutando sistematicamente di sottoporre al Parlamento e al Consiglio proposte di direttiva. Da dieci anni, i due progetti legislativi più importanti sono rimasti bloccati a causa della Commissione: la revisione della direttiva riguardante la tutela dei lavoratori contro le sostanze cancerogene e la proposta di direttiva sui disturbi muscoloscheletrici. D’altronde, la Commissione deve vigilare affinché le direttive comunitarie siano attuate con efficacia. In questo quadro, essa esercita funzioni molteplici, che vanno dalle procedure giudiziarie contro le inadempienze degli Stati membri a un ruolo di coordinamento e d’impulso di una strategia concertata a livello tripartito: sia con le organizzazioni sindacali che con quelle imprenditoriali e gli Stati membri. In quanto organizzazioni sindacali, non siamo certamente i soli a provare grande frustrazione riguardo al reale livello di tripartitismo attuato nelle politiche per la salute e la sicurezza sul lavoro. Le nostre opinioni vengono raramente ascoltate e non si dà alcun seguito alle nostre proposte.  Certo, vengono organizzate innumerevoli riunioni, ma non contano granché nella reale definizione delle politiche. Situazione rispecchiata anche dalla maniera disinvolta con cui la Commissione ha trattato la richiesta delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali di attuare, tramite una direttiva, l’accordo sulla prevenzione nel settore delle parruccherie.

Per quanto attiene alla revisione della direttiva sugli agenti cancerogeni, è chiaro che l’attuale quadro legislativo è inadeguato e insufficiente, basato su conoscenze scientifiche che risalgono agli anni ‘70, epoca in cui era ampiamente ignorato il ruolo delle sostanze interferenti endocrini e i processi epigenetici nello sviluppo dei tumori. Questa direttiva non è coerente neanche rispetto alla definizione delle sostanze che destano le maggiori preoccupazioni nel regolamento REACH, in quanto essa non esclude le sostanze tossiche per la riproduzione. Questa direttiva definisce i valori limiti vincolanti solo per tre sostanze, cui occorre aggiungere l’amianto e il piombo, per i quali sono stati definiti valori limite vincolanti in altre direttive. Tali valori limite sono distanti dalle esigenze di prevenzioni che le tecniche odierne permetterebbero. Valori che coprono meno del 20% delle situazioni reali di esposizione dei lavoratori ad agenti cancerogeni. L’esperienza della prevenzione mostra che le situazioni più pericolose sono legate a esposizioni multiple nonché a esposizioni provocate dal processo produttivo, come nel caso della silice cristallina o i vapori di diesel. La sorveglianza della salute, come prevista dalla direttiva, non è sufficiente. Sappiamo che esistono tempi di latenza molto lunghi fra periodo dell’esposizione e sviluppo di un tumore. È quindi indispensabile prevedere una sorveglianza della salute che copra tutto l’arco della vita dei lavoratori che sono stati esposti. Non è previsto attualmente nella direttiva comunitaria, né viene finora attuato nella maggior parte degli Stati membri. Da oltre dieci anni le organizzazioni sindacali e un gran numero di Stati membri attirano l’attenzione della Commissione sull’importanza della questione. Da oltre dieci anni ci scontriamo contro un’inerzia insormontabile. Eppure, nella strategia 2002-2007, era riconosciuta la necessità di rivedere questa direttiva. Nel documento di giugno 2014 della Commissione non vi è più alcun riferimento alla questione e la revisione non è ancora stata realizzata. Il 4 marzo 2014, i ministeri del lavoro di Austria, Germania, Paesi Bassi e Belgio hanno indirizzato una lettera comune alla Commissione per chiedere una revisione rapida della direttiva sulla prevenzione dei tumori connessi all’attività professionale. Nella maggior parte dei paesi europei, lo scandalo dell’amianto ha contribuito a rivitalizzare le politiche pubbliche per la salute sul posto di lavoro, mentre la Commissione europea continua a trascurare drammaticamente la questione dei tumori professionali. Un settore in cui, invece, la politica europea avrebbe un valore aggiunto importante. Di fatto, la prevenzione efficace dei tumori professionali presuppone una strategia d’insieme che riguarda contemporaneamente il mercato interno, la tutela dell’ambiente, la protezione dei lavoratori e la salute pubblica. Si è al centro delle competenze comunitarie.

Per quanto riguarda i disturbi muscoloscheletrici, si tratta di un problema di salute che interessa un lavoratore su quattro in Europa. Una prevenzione efficace di tali disturbi presuppone un approccio integrato che considera il complesso dei rischi ergonomici nonché la loro interazione con rischi psicosociali. La legislazione attuale è frammentaria e disomogenea. Si limita al lavoro al computer, al trasporto manuale di carichi e alle vibrazioni. Non affronta altri fattori come i movimenti ripetitivi, i vincoli posturali, il contenuto dell’attività lavorativa, il margine di manovra degli operatori e l’intensità del lavoro. Le carenze della prevenzione nel settore dei disturbi muscoloscheletrici sono lampanti. I sistemi di sicurezza sociale di ogni Stato membro coprono una quota crescente di spesa dovuta a inabilità al lavoro, invalidità e, talvolta, al ritiro totale dal mercato del lavoro di persone impossibilitate a continuare a lavorare a causa di queste patologie. Esiste una forte componente di genere nei disturbi muscoloscheletrici che sono legati alla segregazione occupazionale. Le donne sono concentrate in settori e in attività in cui il lavoro ripetitivo è ampiamente diffuso, mentre l’autonomia di cui dispongono per organizzare le loro attività è limitata.

Il programma di questa conferenza rispecchia la situazione di stallo della politica attuale. La questione centrale sottintende la possibile esistenza di una contraddizione fra il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’economia. Un mito molto antico: già agli inizi del XIX secolo si affermava che il divieto di far lavorare i bambini nelle miniere avrebbe condotto al fallimento l’economia dei paesi interessati. Nessuna questione sostanziale sarà oggetto di un esame approfondito. Non saranno trattati in modo sistematico i tumori, né i disturbi muscolo scheletrici, né i rischi psicosociali o gli incidenti sul lavoro. Ci troviamo, qui, in una bolla isolata dalla realtà. Da sei anni, non c’è una sola conferenza europea che non si occupi solennemente della riduzione dei costi amministrativi. Una questione che è ampiamente artificiale, utilizzata come pretesto per paralizzare le politiche per la salute e la sicurezza sul lavoro dell’Unione europea. La precedente commissione ha affidato una parte di questo dossier al gruppo Stoiber e ha permesso all’ufficio di valutazione d’impatto (Impact Board Assessment) di ostacolare iniziative indispensabili per cittadini e lavoratori. Ha creato una nuova burocrazia incompetente che crede di fondare la propria legittimità su promesse assurde. Ha creato un mercato di consulenti le cui relazioni non smettono di accumularsi e che danno l’impressione di avere un numero di pagine inversamente proporzionale alla qualità delle analisi. A sentire il gruppo Stoiber, basterebbe seguire i suoi pareri per risparmiare oltre 40 miliardi di euro. La Commissione ha adottato metodi di calcolo dei “costi amministrativi” che sono distorti e soggettivi. Questi metodi consistono nel raccogliere il parere di alcuni datori di lavoro e, successivamente, estrapolare in dati in modo fantasioso. Dopo anni di discussioni sulla questione, non ho ancora sentito un solo esempio pertinente in grado di dimostrare che una direttiva in materia di salute e sicurezza sia un carico amministrativo inutile. Le direttive esistenti impongono obblighi proporzionati all’ampiezza dei rischi. La base di queste direttive è la valutazione dei rischi, che permette di adattare i piani di prevenzione ai problemi reali incontrati sui luoghi di lavoro. Il rimettere in discussione, da parte del gruppo Stoiber, la necessità di un documento sulla valutazione dei rischi minaccia l’efficacia globale della legislazione comunitaria. È incomprensibile come tale questione continui a essere oggetto di dubbi, a scapito di una politica seria che affronti i rischi del lavoro. In veste di organizzazioni sindacali, prenderemo parte alle discussioni sulla valutazione delle direttive esistenti, che rischiano purtroppo di assorbire molto tempo nel 2015. Noi ci impegneremo a integrarvi la realtà dei luoghi di lavoro, della sofferenza creata dalle malattie e dagli infortuni, cercando di evitare il tranello di documenti interminabili che contengono molte più opinioni e pregiudizi che fatti.

Per i sindacati, occorre riconoscere prima di tutto il costo immenso, sia umano e sociale che finanziario, dei danni alla salute causati dal lavoro. Le ultime elezioni per il Parlamento europeo hanno messo in evidenza, in molti paesi, una crescente disaffezione nei confronti del progetto di costruzione europea. Spetta alle istituzioni europee dimostrare che il loro progetto contribuisce veramente a un’armonizzazione delle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni in Europa. È in questo ambito che chiediamo con forza una rottura con la politica del passato. Ciò implica l’adozione di una vera e propria strategia per la salute e la sicurezza sul lavoro nettamente più ambiziosa e concreta della comunicazione presentata dalla Commissione a giugno 2014.

I politologi ritengono, in genere, che i primi 100 giorni di una squadra politica siano determinanti per giudicare la sua coerenza e credibilità. Conoscendo le lentezze del processo decisionale europeo, possiamo essere molto più generosi ed estendere il test su un periodo di 12 mesi. È nel corso del 2015 che ci aspettiamo iniziative legislative concrete da parte di questa Commissione. Mi auguro, quindi, che fra un anno potremo discutere tematiche molto più sostanziali di quelle di oggi: come preparare l’attuazione della direttiva rivista sugli agenti cancerogeni e di quella riguardante i disturbi muscoloscheletrici?

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