Riportiamo i contenuti di alcune sentenze di Cassazione Civile sul tema delle aggressioni ai lavoratori, sempre più diffuse nell’ambito di particolari categorie, dai trasporti al settore bancario.
Il punto di partenza resta una norma civilistica: l’articolo 2087 c.c., la cui violazione da parte del datore di lavoro
viene in considerazione con riguardo all’omissione di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, e non in riferimento a misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge o da altra fonte ugualmente vincolante.
Anche rispetto a questo tipo di misure “innominate” grava, dicono le sentenze l’onere della prova a carico del Datore di lavoro di aver adottato misure e comportamenti specifici atti a fronteggiare il rischio.
In particolare le pronunce della Cassazione Civile si soffermano sugli aspetti dei danni psicologici ricevuti dal lavoratore o dalla lavoratrice. Soffermiamoci su alcuni casi.
In una sentenza della Cassazione Civile, Sez. Lav., 5 gennaio 2016 n. 34 è stata confermata la condanna di una azienda di gestione di una Autostrada al risarcimento del danno in favore di un casellante. Il quale denunciava di aver contratto una patologia da far risalire allo stress prima , durante e dopo l’evento criminoso subito, dove era stato minacciato con un’arma da fuoco. E che tale evento era favorito dalla
condotta della datrice di lavoro, che non aveva approntato le “giuste cautele” per preservare l’integrità dei lavoratori addetti all’esazione del pedaggio.
La Cassazione sottolinea nella sentenza che la Società non ha
dimostrato di aver fornito strumenti volti a fornire sicurezza ai casellanti, come vetri blindati, telecamere a circuito chiuso etc.
In un’altra sentenza, pronunciata dalla Cassazione Civile, Sez. Lav., 30 marzo 2010 n. 7663, al contrario è stato rigettato il ricorso del dipendente assolvendo l’azienda Poste Italiane in quanto ha
ritenute idonee le misure di prevenzione dalle rapine che erano state adottate
pur in presenza di una rapina che aveva provocato uno shock alla stessa lavoratrice che era in stato interessante.
Nel pronunciamento la Corte precisa che è emerso che
le Poste avevano dotato l’Agenzia delle misure di sicurezza e, specificamente, delle misure antirapina espressamente previste nel proprio regolamento interno ed estese a tutti gli uffici di analoghe dimensioni e dislocazioni
e che
dette misure erano, ad ogni modo, compatibili con quelle di protezioni previste dall’art. 2087 c.c. dovendosi avere riguardo alle caratteristiche dell’attività dell’impresa e delle mansioni svolte dal lavoratore, nonché alle condizioni dell’ambiente esterno e quello di lavoro, sicché vi sia una apprezzabile probabilità, oggettivamente valutabile, di verificazione del rischio lamentato, (v. Cass. 06.02.1998 n. 1241).
Aggiungendo che Poste
aveva tenuto conto delle piccole dimensioni dell’Ufficio postale in esame […] e, soprattutto, della densità criminale notoriamente tra le più basse d’Italia, nonché della scarsa incidenza di rapine nell’Ufficio in esame, fattori, questi ultimi, che escludevano una “ragionevole probabilità di verificazione” di eventi criminosi, tali da indurre all’adozione di misure particolarmente incisive di mezzi di protezione.
In questi come in altri casi la Cassazione ha commisurato, questo va sottolineato, le responsabilità del datore di lavoro con la concreta possibilità di prevenire gli atti criminosi e anche, laddove si ha, il comportamento del lavoratore.
Infatti
seppure è vero che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che può sussistere (cfr. tuttavia, contra: Cass. n. 25883\08; Cass. n. 15350\01; Cass. n. 11710\98) la responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., anche laddove l’evento dannoso sia derivato dall’azione, anche delittuosa, di terzi, è altrettanto vero che il fondamento della responsabilità è sempre stato ravvisato in un elemento colposo di questi, così come, nel caso della rapina, allorquando pur a fronte di ripetuti e denunciati episodi criminali, la datrice di lavoro non abbia adottato alcuna misura idonea ad evitare il danno (cfr. Cass. n. 21479\05; Cass. n. 8230\03; Cass. n. 14469\00).
Laddove questo elemento colposo non viene ravvisato si respinge la responsabilità del Datore di lavoro come nel caso che segue dove una guardia giurata (L.),
adibita al servizio di vigilanza e piantonamento mobile presso un residence,
mentre
stava svolgendo il suo servizio all’interno della guardiola sita all’ingresso del comprensorio con il compito di alzare e abbassare la sbarra dopo aver identificato i soggetti in entrata e in uscita”, è stata aggredita “da un uomo introdottosi abusivamente nel comprensorio, riportando lesioni.
In particolare,
due persone a bordo di un’autovettura erano entrate abusivamente nel comprensorio, senza dire dove fossero dirette, e quindi, prima di allontanarsi, a seguito delle insistenti richieste dalla guardia giurata che teneva abbassata la sbarra, uno dei due occupanti dell’auto era entrato nella guardiola – che non era chiusa a chiave – ed era venuto a colluttazione con il L.
Si tenga conto che
a tale guardiola o “gabbiotto” si accedeva mediante una porta munita di chiave che poteva essere chiusa dall’interno.
La Cassazione Civile 20 aprile 2012 n. 6208 rigetta il ricorso della guardia giurata e la relativa richiesta di risarcimento, in quanto
premesso che i compiti di vigilanza e di piantonamento fisso e mobile rientravano nelle mansioni di guardia giurata assegnate al dipendente, e comprendevano le funzioni di controllo all’ingresso, il giudice dell’appello ha osservato che queste dovevano essere svolte all’interno della guardiola dalla quale doveva essere azionata la sbarra di ingresso, evitando qualsiasi contatto fisico con terzi, in quanto il “gabbiotto” poteva essere chiuso a chiave dall’interno. Dunque solo la negligenza della guardia giurata, che non aveva chiuso a chiave la porta di accesso, aveva reso possibile l’aggressione.